Dazi, non serve attaccare Ursula

Von der Leyen è riuscita a ridurre i rischi per l'economia europea. Attaccare Ursula è controproducente per l'Ue, così si fa il gioco di Trump


5 Agosto 2025

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Economia e Mercato

Accusata di aver umiliato l’Europa dopo il negoziato sui dazi concluso con Trump, Ursula von der Leyen sembra più isolata che mai. L’hanno criticata tutti: i capi dei governi nazionali, con poche eccezioni tra cui la presidente Meloni, le categorie produttive più coinvolte, che si preparano così a chiedere sussidi e aiuti, frange di eurodeputati, che hanno già dichiarato di volere un voto di sfiducia in parlamento. Poteva, però, andare diversamente? Poteva, von der Leyen, ottenere di più?

Probabilmente no, per diversi motivi. Innanzitutto, in qualsiasi negoziato, a dare le carte è il più forte. La forza di Trump non è la sua personale virulenza. Basterebbe immaginarlo a capo di uno Stato diverso per rendersene conto. La sua forza è quella di un Paese che, in due secoli di storia, ha determinato i caratteri attuali delle nostre istituzioni politiche, giuridiche, economiche e che, negli ultimi ottant’anni, ha garantito, dominandolo, un equilibrio internazionale di cui l’Europa ha beneficiato. È questo che impedirebbe a chiunque, non solo alla presidente della Commissione, di fare altro dal gestire come può questo passaggio, attutire il colpo, raffreddare i bollori.

In secondo luogo, proprio perché la forza di Trump non è la sua forza ma quella di un Paese di solide tradizioni democratiche, nessuno può dire fino a quando gli americani accetteranno di essere rappresentati dalla sua strategia nerboruta nelle faccende interne, effetto dazi compreso, e fino a che punto ne vorranno ratificare gli effetti, nel medio termine. La pesante, immodificabile Europa è probabile invece che continuerà ad essere lì, nel bene e nel male, con i suoi lenti e inossidabili movimenti.

In terzo luogo, Trump e Von der Leyen non possono essere messi sullo stesso livello. Essere presidente degli Stati Uniti d’America non è la stessa cosa, in termini di poteri, che essere presidente della Commissione europea. Ridotto all’osso, uno poteva recitare il ruolo di protagonista in commedia. L’altra doveva tenere insieme i fili di 27 diversi attori. Dati questi motivi, se ci si aspettava che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, spuntasse un accordo volto a eliminare le tensioni correnti con gli Stati Uniti, probabilmente si avevano attese troppo alte. Se, invece, ci si aspettava l’attenuazione dell’impatto di una tensione non cercata, probabilmente si deve riconoscere alla presidente di aver fatto per ora il possibile, compreso temporeggiare.

Il negoziato non elimina infatti le incertezze, anche perché è solo una specie di accordo quadro privo per il momento di efficacia. Però compra tempo e guadagna una prima mitigazione dei rischi, anche in vista del quesito che nel frattempo si è aperto negli Stati Uniti se il presidente Donald Trump abbia o meno il potere autonomo di imporre dazi. Certo, nel frattempo i dazi, annunciati o realizzati, producono e produrranno conseguenze. Se non si può sottovalutare il peso delle esportazioni verso gli Stati Uniti, non bisogna nemmeno sottostimare la forza del mercato unico europeo, che al mondo è il più grande e il più aperto, in termini di accordi commerciali.

Avere da un lato consentito un mercato comune interno, dall’altro affidato all’Unione europea la responsabilità del commercio internazionale ha aiutato l’economia dell’area europea a diventare la più importante per valore. Anche questo, sempre nel medio termine, non è poco. Ed è un successo che si deve a quando l’Europa credeva, molto più di oggi, che un’economia libera e liberalizzata sarebbe stata la principale garanzia di benessere del suo popolo.

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