Dai referendum del 1995 una svolta per l’Italia di oggi

I referendum del 1995 sono stati un punto di svolta per l'Italia: con un esito differente avremmo avuto politiche differenti

21 Luglio 2025

Il Sole 24 Ore

Carlo Marroni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Una cosa oggi pare accettata: anziché sostituirsi alla televisione e riportare in auge la parola scritta come da principio si pensava, Internet è diventato un pezzo della televisione. Già, proprio così. Infatti da lì passano le piattaforme sulle quali vediamo film e fiction, che continuiamo a chiamare «serie tv». Una cifra, su tutte: YouTube è un network con 2,5 miliardi di spettatori mensili. Quindi, per parafrasare ancora una volta Mark Twain, la notizia della «morte della tv generalista» è stata ampiamente esagerata. Fa ancora parte della dieta mediatica di milioni di persone: il «duopolio» non è stato superato per legge, ci ha pensato la tecnologia.

Alberto Mingardi, storico e politologo di area liberale, nel suo libro Meglio poter scegliere. I referendum del 1995 e la battaglia per la televisione commerciale (Mondadori, pagg. 420, € 22), esamina a fondo quando accadde trent’anni fa, un passaggio politico oggi perlopiù dimenticato ma nella sua essenza profonda uno dei più importanti, tra due fasi storiche e la premessa per l’apertura di altri cambiamenti, che tuttora viviamo. Va detto: c’è un prima e un dopo. E il dopo c’è stato perché il voto di trent’anni fa andò in quel modo, il sistema messo in piedi da Berlusconi – con tutti i fiancheggiamenti politici noti restò, e così la carriera politica del Cavaliere, appena iniziata e azzoppata subito con il noto “ribaltone” – nella narrazione orchestrato da Quirinale, “poteri forti” e chissà chi altro – si preparò a un grande rientro qualche anno dopo.

Dal libro di Minardi emerge che è stato meglio avere la televisione. «Mosso dal proprio interesse, mentre scalava la classifica degli uomini più ricchi del Paese, la rivoluzione liberale Berlusconi l’aveva fatta prima di scendere in campo. Quando, con le sue televisioni, aveva liberato la cultura, il cinema, l’informazione. Se, all’inizio degli anni 60, l’Italia può stufarsi di essere il Paese dei panettoni di Stato è perché, dopo troppo tempo, ha conosciuto finalmente l’alternativa e l’alternativa è il mondo a colori della televisione commerciale». Insomma il «duopolio» era stato conquistato con una guerriglia concorrenziale geniale e spietata ed è stato, anno dopo anno, difeso in una guerra di posizione contro l’azienda pubblica che ha la maggior presa sul ceto politico italiano, oggi come ieri.

Siccome dal voto si parte, vediamo come andò. E andò in modo sorprendente: la partecipazione è elevata: su 48 milioni di elettori, si presentano al seggio in 28 milioni, più o meno il 58% degli aventi diritto. Quei referendum del giugno 1995 incontrano Silvio Berlusconi a poco più di un anno dalla sua discesa in campo e mentre la sua vicenda politica sembra toccare il fondo. «Disarcionato in malo modo dal governo, beffato da un alleato a cui aveva consegnato una cospicua rappresentanza parlamentare, la sciatteria con cui si è mosso nei palazzi del potere contraddice la premessa di tutte le sue promesse elettorali: solo un imprenditore può raddrizzare l’azienda Italia. Nonostante lo scintillante 30% che ha ottenuto alle Europee del giugno precedente, è opinione diffusa che, con la politica, il plutocrate si sia scottato le dita. Fioccano i te l’avevo detto io.

Osservatori tutt’altro che sprovveduti immaginano che, tempo qualche mese, il fondatore di Forza Italia si accomoderà in una teca da museo, lasciando spazio a quello che è evidentemente il leader più attrezzato della destra italiana: Gianfranco Fini. Forse le cose sarebbero proprio andate così se, quell’11 giugno, gli elettori avessero tagliato la testa una volta e per sempre al conflitto d’interessi. Solo che non lo fanno. Parte di loro indubbiamente si reca alle urne per votare su Berlusconi, per difendere il salvatore designato del Paese o per liberarsi di questo flagello della democrazia».

Per Mingardi comunque li si guardi, i referendum del 1995 sono stati uno dei veri punti di svolta dell’Italia contemporanea. «Se avessero avuto un esito differente, forse Berlusconi avrebbe gettato la spugna e gli sarebbero mancate risorse e tigna per tener duro fra 1996 e 2001. Anche a sinistra gli equilibri sarebbero stati altri e la legislatura successiva probabilmente non avrebbe avuto l’intonazione “riformista”, che invece ebbe». Quel passaggio politico di trent’anni fa è caduto nell’oblio, persino coloro che di quegli anni sono stati protagonisti ne serbano un ricordo vago.

I filoberlusconiani li hanno rimossi, perché preferiscono raccontarsi la leggenda del 27 marzo 1994, Berlusconi contro Occhetto, un modo «nuovo» di fare politica contro il vecchio dei partiti, le trame di Scalfaro contro il Cavaliere. «Gli antiberlusconiani – scrive l’autore – non hanno solo l’accortezza di dimenticarsi una sconfitta, ma sono persuasi in buona fede che non sia successo nulla di rilevante: in un mondo dominato dalla tv e in cui Sua Emittenza muoveva i suoi accoliti come fossero soldatini, col senno di poi quei referendum si potevano solo perdere. Certo, se D’Alema si fosse sforzato e avesse detto qualcosa di sinistra…».

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