Dal populismo alla dittatura il passo è sempre stato breve

La lezione di Eric Hoffer

2 Agosto 2022

Il Foglio

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Pare fosse l’autore preferito di Dwight Eisenhower, venne ricevuto alla Casa Bianca da Lyndon Johnson, ricevette la Presidential Medal of Freedom, nel 1983, da Ronald Reagan. Che tutti e tre abbiano apprezzato Eric Hoffer rivela qualcosa su ciò che l’America è, o è stata fino a tempi recenti. Ma ancor di più ci dice il fatto che Hoffer potesse andare a Washington e stringere la mano al Presidente degli Stati Uniti senza avere il passaporto. Il suo certificato di nascita non è mai stato trovato e oggi festeggiamo i centovent’anni dalla sua nascita (15 luglio 1902) per avere una scusa per parlarne, pur sapendo che può darsi siano centoventiquattro. Non c’è traccia di viaggi al di fuori degli Stati Uniti, se non una gita a Tijuana. Dopo la pubblicazione di The True Believer nel 1951, Hoffer raccoglie gli elogi di Hannah Arendt, Bertrand Russell, Arthur Schlesinger. Ma negli Stati Uniti le carte d’identità non esistono e nessuno gliela chiede.

La giovinezza di Eric Hoffer, insisteva il suo ultimo biografo, Tom Bethell (Eric Hoffer: The Longshoreman Philosopher, Hoover Institution Press, 2012) è tutta un mistero. Diceva di essere nato a New York, nel Bronx, da genitori alsaziani. Interlocutori armati di un buon diapason intuivano nel suo inglese un accento bavarese. Probabilmente i genitori erano immigrati, si direbbe oggi, “irregolari”, giunti negli Stati Uniti passando per il Messico. In conseguenza di un trauma, Hoffer ha dichiarato di essere stato “praticamente cieco” dai dieci ai quindici anni. Quando la vista, misteriosamente come se n’era andata, gli torna, il primo romanzo che legge è l’Idiota di Dostoevsky. Lo vede nella vetrina di un librario e se ne impossessa, racconta, perché aveva sentito più volte il padre chiedersi, di quel ragazzino cieco, “che si può fare con un figlio idiota?”.
Sobillato dagli intervistatori, Hoffer negava con decisione che più s’invecchia e più affiorano ricordi lontanissimi. “Possiamo rammentare in modo minuzioso ed esatto solo quello che non ci è successo. Quando sentite qualcuno descrivere nei dettagli cose avvenute nella sua infanzia, potete esser certi che se le sta inventando o glie le ha raccontate qualcun. altro”.

Quel poco della sua adolescenza che Hoffer ha dato in pasto a giornalisti e storici, collage di foto sbiadite probabilmente altrui, non conta poi molto. Perché la sua biografia da quando ce n’è traccia, basta a tirare tutti i fili. Attorno ai vent’anni Hoffer campa facendo il lavoratore stagionale, in giro per la California, cerca fortuna nelle miniere d’oro in Sierra Nevada, fa il venditore di arance. Non ha una casa, si arrangia, accumula tessere della biblioteca e legge, voracemente, affannosamente, quel che può. L’incontro della vita è quello coi Saggi di Montaigne: un giorno, avendo in tasca pochi soldi e passando davanti a una libreria, compra il libro più voluminoso che vede, contando che l’investimento gli valga quante più ore di lettura. Hoffer è di quelli per cui essere un uomo vuol dire esattamente saper fare un mucchio di tutte le tue fortune e rischiarle in un lancio a testa o croce. “Esponetevi al caso”, scriverà poi, “ad esempio, andate in una libreria e scorrete a caso i testi di una materia che vi interessa. Non consultate una bibliografia, non basatevi su quello che vi hanno detto. Non adottate mai un metodo che possa limitare il caso”.

Quella volta il caso fu propizio. Hoffer dirà poi di avere imparato a scrivere leggendo “Montaigne, l’Antico Testamento e alcuni libri di testo di botanica”. Ma è il saggista francese che gli trasmette “il gusto di una bella frase. Non mi era mai venuto in mente di scrivere nulla, prima di leggere Montaigne”.

“La più grande cosa al mondo è saper essere per sé” e Hoffer ci prova. Nel mezzo della grande depressione, nel 1934, finisce in un “campo federale”. Entrandoci, sembra “un po’ una fabbrica e un po’ una prigione”. È un luogo dove si prova a mettere un tetto sopra la testa a lavoratori sfortunati. Hoffer ci entra con convinzione, “per ripulirsi”, il suo obiettivo è darsi una regola, essere un po’ meno nomade. Perdipiù, i pasti sono abbondanti. Si guarda intorno: “meno di metà degli ospiti del campo (settanta normali, oltre a dieci più giovani) erano lavoratori disoccupati, gente che, non appena si fossero resi disponibili posti di lavoro, non avrebbe più avuto problemi. Il resto (un buon 60 per cento) aveva qualche menomazione in aggiunta alla disoccupazione.”

Nel 1941, dopo Pearl Harbor, vuole arruolarsi. Lo scartano per un problema di ernia. Due anni dopo lo troviamo sui moli di San Francisco, fa lo scaricatore di porto. Andrà in pensione nel 1966, quando è già un protagonista della vita letteraria americana. Vivrà sempre in case modeste. “Per la prima volta dacché era adulto, alla fine del 1971 Hoffer ebbe un’abitazione decente” (James Koerner, Hoffer’s America, Library Press, 1973). La vista è sui docks dove per quattro lustri si era spaccato la schiena. Non troppo diversamente, si vestirà sempre alla stessa maniera, con una giacchetta Filson e il berretto da lavoro. Qualcuno direbbe: marketing. Diventato famoso come il filosofo portuale, si è tenuto stretto la parte.

È così, ma c’è dell’altro. “In generale si dà per scontato che le persone brillanti non possano sopportare la routine, che abbiano bisogno di una vita variegate ed eccitante per dare il meglio di sé. Si dà altrettanto per scontato che le persone ottuse siano particolarmente adatte a fare lavori noiosi”. È quel che crede, fateci caso, ogni intellettuale degno di questo nome. Il giornalista vuol fare l’inviato, il taccuino dello scrittore ha bisogno di viaggi da raccontare, e non azzardatevi a levare al professore universitario l’imprescindibile convegno in Guatemala. Ma per Hoffer “non vi è la minima prova che le persone che raggiungono grandi risultati anelino ad avere una vita piena di avvenimenti, né tanto meno che la loro vita sia particolarmente avventurosa. Piuttosto sembra vero il contrario”. Kant, sogghigna, non si è mai allontanato più di cento chilometri da Koenisberg.

Nel 1968, Hoffer è al massimo della notorietà. Ha una rubrica su un giornale, tiene lezioni e seminari a Berkley. Dopo l’assassinio di Robert Kennedy, nel giugno di quell’anno, Lyndon Johnson lo chiama a far parte di una Commissione nazionale sulle cause e la prevenzione della violenza. Intanto incalza la rivolta studentesca. Hoffer non ne è molto impressionato, a dir poco. Capisce che i giovani protestano contro “l’ottusità del lavoro in fabbrica” perché si sentono “più istruiti e più svegli dei giovani del passato”. L’idea che la catena di montaggio sia la scena su cui si consuma il dramma dell’alienazione non lo persuade. “La maggior parte degli atti d’accusa contro le macchine, come tutti sanno, proviene da scrittori, poeti, filosofi e studiosi – uomini di lettere – che non hanno alcuna esperienza personale di cosa significhi lavorare e vivere con un macchinario”.
I fabbricanti di parole hanno forgiato una sorta di modello che i giovani si affannano a rincorrere. È il bisogno di riempirsi la vita di emozioni, di avventure politiche, di battaglie combattute in nome di un qualche bene superiore. Il nemico da abbattere è un sistema sociale ma anche un modo di vivere, quello associato con generoso sarcasmo all’aggettivo borghese. L’obiettivo individuale di una prosperità tranquilla. Il lavoro come metronomo della vita.

Ciò che per altri è la nebbia che impedisce all’uomo di prendere il controllo del proprio destino, per Hoffer è un valore. Anche intellettuale e artistico: “il tratto più prominente della creatività umana consiste nella capacità di trasformare gli impulsi più banali in conseguenze di grande momento. La grandezza dell’uomo si vede in quello che egli riesce a realizzare con le miserie e le gioie più piccole e con i più comuni impulsi e appetiti fisiologici”. Guardati dentro, se vuoi scoprire qualcosa: prendere l’aereo non serve.

“La gente che trova insopportabili i lavori più noiosi”, conclude, “è sovente gente che non è a suo agio con se stessa nei momenti liberi”. Non è solo una variazione su un pensiero di Pascal: “tutta l’infelicità degli uomini ha una sola provenienza, ossia di non saper restare tranquilli in una stanza”. Per Hoffer, “i bambini e le persone mature sono soddisfattissime della monotonia della routine, mentre l’adolescente, che ha smarrito la capacità di concentrazione dei fanciulli e non possiede le risorse interiori degli adulti, ha bisogno di eccitazione e novità per allontanare la noia”.

Si potrebbe dire che è l’adolescenza il grande tema di Hoffer: il bisogno di adolescenza, di eccitazione, che attraversa le società. La dilatazione dei tempi dell’adolescenza, individuale e collettiva, che segna la seconda parte del Novecento. Adolescenza come età di un’irresponsabilità conquistata costi quel che costi, rabbia scaricata contro le brutture del mondo, ribellismo con velleità artistiche: rifare la società, niente di meno, a misura di un sogno.

Hoffer era un solitario, gelosissimo della sua solitudine. Di rapporti personali solidi ne aveva pochi. The True Believer è dedicato a Margaret Anderson, l’assistente del direttore della rivista Common Ground: Hoffer prova a inviare un pezzo, una lunga lettera lunga una trentina di pagine, la Anderson ha il compito di rispondergli con uno stringato “grazie, ma no grazie”. Lo fa, ma nel contempo gira anche il manoscritto alla Harper Collins. Si incontrano di persona. Una volta soltanto.

A spingere Hoffer a scrivere è la sua amica Lili Osborne, che è la moglie di un suo collega, Selden Osborne, e più tardi la sua compagna. Il marito, Selden, è il contrario di Eric: ha studiato a Stanford, si appassiona alla causa socialista, finisce per diventare un colletto blu un po’ perché non trova lavoro come insegnante e un po’ perché, convinto della superiorità della classe operaia, vuole essere uno di loro.

Selden è anche l’involontario modello a cui Hoffer si ispira, nel suo ritratto del “vero credente”. Uno dei motti più fortunati di Giorgio Gaber è il celebre “non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Nel pamphlet di Hoffer una frase simile sarebbe stata bene, ma al posto di Berlusconi metteteci Stalin, o Hitler. C’è una parte di noi che vive una vertigine particolare, quando finalmente incontra un punto di vista, un’idea, un’insieme di parole che fa tornare tutti i conti. Che spiega, finalmente, il senso recondito della realtà.
The True Believer è uno dei grandi libri sul totalitarismo perché riesce a spiegarcelo “dal lato della domanda”: a farci comprendere quali sono i motivi individuali che innescano i movimenti collettivi, e li spingono in una certa direzione. Hoffer sa che gli esseri umani tendono ad avere una visione della fortuna meno ludica della sua. “È comprensibile che chi vive un fallimento sia incline a biasimare il mondo”. Lo scontento è patrimonio non tanto di chi si trova, più o meno temporaneamente, ai margini della società. Gli insoddisfatti rissosi non sono gli Hoffer costretti a catapultarsi da un lavoro all’altro. “La nostra frustrazione è maggiore quando abbiamo tanto e vorremmo di più che quando non abbiamo nulla e vorremmo qualcosa”.

L’insoddisfazione nutre l’immaginazione umana ma per la prima volta, nell’età moderna, incontra “l’illusione di aver domato l’imprevedibile”. Esiste, spiega Hoffer, un “conservatorismo degli indigenti” che è più profondo e istintivo del conservatorismo di chi ha una posizione da conservare. Pescatori, nomadi e contadini, “tutti loro temono il cambiamento, affrontano il mondo come affronterebbero una giuria plenipotenziaria”. Ma il mondo di cui attenderei un verdetto come quello di una giuria è ormai molto lontano da noi. Lo sviluppo tecnologico ci ha insegnato che possiamo modificare il mondo naturale, a maggior ragione dovremmo essere in grado di plasmare la realtà sociale. Nel “vero credente”, il forte scontento per la propria posizione si somma alla percezione di avere a disposizione “la forza di una dottrina, di un leader infallibile o di una nuova tecnica” che dà accesso a un potere irresistibile. Oltre a ciò, il vero credente coltiva una qualche “concezione eccessiva delle prospettive e delle potenzialità del futuro” e manca di quell’esperienza che potrebbe farlo dubitare delle proprie speranze. È l’esperienza sedimentata di secoli nei quali, poco o tanto, hanno fatto i conti col governo popolare, rifletteva Hoffer, che ha tenuto gli inglesi (o, aggiungeremmo noi, gli svizzeri) lontani dai movimenti di massa.

Nelle sue ricerche, Francesco Alberoni insisterà che l’adesione ai movimenti collettivi non ha nulla di utilitaristico. Hoffer spiega che i movimenti di massa non sono organizzazioni “pratiche”, fondate con lo scopo limitato di procurare opportunità a qualcuno, e che dunque s’appellano all’autointeresse dei membri. “I movimenti di massa attraggono e conservano un loro seguito non già perché riescono a soddisfare il desiderio di automiglioramento, ma perché riescono a soddisfare la passione per la rinuncia a se stessi”. Il vero credente di Hoffer è un uomo che crede poco in se stesso, che balbetterebbe di fronte al mondo se davvero fosse il tribunale chiamato a emettere un giudizio sulla sua vita, e che proprio per questo abbraccia una causa “santa”. L’aveva già scritto Montaigne: “quali cause inventiamo per le disgrazie che ci capitano? Con che cosa non ce la prendiamo, a torto o a ragione, per aver con che disputare?” Nella modernità tecnologica, le cause che c’inventiamo diventano un “sistema”, una cospirazione, un complotto, pensati contro di noi e chi ci somiglia. All’eccitazione di averli scoperti, si sovrappongono il sollievo di avere finalmente un nemico e la determinazione di fare ogni e qualsiasi cosa per sgominarlo.

Deponendo il proprio “io” ai piedi dell’altare di un superiore bene collettivo, il vero credente finalmente respira: il suo altruismo gli consente di guardarsi allo specchio e vedere un uomo migliore, l’annullarsi in qualcosa di più grande di lui lo affranca dal fardello della responsabilità. “Aderiamo a un movimento di massa per fuggire dalla responsabilità individuale o, per citare quanto ebbe a dire un giovane nazista infervorato, «per essere liberi dalla libertà»”.

Se il libro di Hoffer s’intitola “il vero credente”, è perché i movimenti collettivi sono, ai suoi occhi, essenzialmente intercambiabili. Cita una frase di Hitler (dalle controverse “Conversazioni” con Rauschning): “Né il piccolo borghese socialdemocratico né il sindacalista potranno mai diventare nazionalsocialisti, ma il comunista potrà sempre farlo”. È la ragione per cui, in anni recenti, Hoffer è stato interrogato per capire qualcosa in più del terrorismo jihadista, di Occupy Wall Street o dei populismi di destra. I movimenti collettivi rispondono a un bisogno, sostituiscono qualcosa che ci è venuto a mancare: “il sostituto della fiducia in se stessi è la fede; il sostituto dell’autostima è l’orgoglio; il sostituto dell’equilibrio personale è la fusione con gli altri in un gruppo compatto”.

Questi movimenti non sono però l’esito di forze spontanee: “i movimenti di massa non emergono finché l’ordine predominante non è stato screditato. Tale discredito non è il risultato automatico di errori e abusi da parte di chi è al potere, ma l’opera mirata degli uomini d’eloquio che serbano un rancore”.

“Rammento ancora il mio disprezzo” (scrive in un altro saggio) “quando lessi per la prima volta la descrizione fatta da Marx della disposizione degli operai verso il lavoro in una società capitalistica. Il lavoratore, dice Marx, sente di essere fisicamente e moralmente debilitato dalle proprie mansioni. Egli vive da esule nel suo stesso luogo di lavoro e si sente a casa solo quando ne è lontano. In vita sua, Marx non ha mai fatto un solo giorno di lavoro e non si è mai preso il disturbo di scoprire cosa risponderebbe davvero un operaio se gli si chiedesse come si sente quando lavora. Semplicemente egli dava per scontato che gli operai fossero una specie inferiore di intellettuali”.

Che i lavoratori altro non siano che una specie inferiore di intellettuali è l’assunto nemmeno troppo implicito di due secoli di lotte nel nome del lavoro. A noi produttori di parole piace pensare che a tutto il mondo piacerebbe ciò che piace a noi, se solo avessero uno sguardo altrettanto illuminato. La vita ideale è quella di Keynes, o di Lytton Strachey, o di Alberto Moravia e, se accettiamo che con minor talento non si può che raggiungerne una qualche approssimazione, non tolleriamo che il pregiudizio sociale o le grette ragioni dell’economia si mettano in mezzo. Visto da quella prospettiva, la giustizia sociale e il libero amore si somigliano. In nome dell’una e dell’altro, libereremo i lavoratori dalle catene che la borghesia ha stretto ai loro polsi.

Ma che cosa desiderano davvero i lavoratori? Siamo sicuri che una persona comune preferisca Simenon a James Joyce solo perché le manca la cultura per capire il secondo? Che coltivi il sogno d’innamorarsi e passare la vita con un’altra persona, una e non ventotto, perché è stata rincretinita dai preti ieri e dalla televisione oggi? Che la fatica fisica sia alienante, e non porti magari con sé la soddisfazione del lavoro ben fatto, il gusto di aver contribuito un dettaglio, ma importante, a un bene di consumo che riconoscono per le strade e dà soddisfazione ad altri esseri umani?

Convinto che “Il gioco della Storia si svolge in genere tra gli individui migliori e quelli peggiori sulle teste della maggioranza posta nel mezzo”, Eric Hoffer è stato fra i pochi pensatori a mettersi dalla parte di questa maggioranza. Il più delle volte, anche chi rinuncia alle seduzioni del socialismo e resiste agli appelli del nazionalismo per abbracciare la democrazia liberale, ne è diffidente. Contare le teste anziché tagliarle appare un progresso. Ma le società democratiche e liberali tendono a essere anche società capitaliste. Regna la sovranità del consumatore, che è poi l’uomo comune, la persona ordinaria, col suo gusto comune e le sue preferenze ordinarie. Dalle società libere è escluso l’orizzonte della grandezza. Sono tutto lavoro e niente poesia.

Hoffer è assai distante da quei “liberali da guerra fredda” cui non sarebbe dispiaciuto e non dispiacerebbe che le democrazie fossero più marziali, più inclini a essere pronte per la guerra non domani ma oggi, magari persino disposte ad ammettere che certe volte l’unica difesa è davvero l’attacco. Nella riottosità delle persone a mettersi l’elmetto, nel loro pervicace pensare alla conta di benefici e costi anche quando un qualche nemico più o meno prossimo è stato già identificato dai detentori del potere, risiederebbe la “fragilità della società libera”. La libertà di parola ed espressione e tre pasti al giorno non trovano chi sia disposti a difenderli, fucile in mano.

Ecco, sono proprio queste società, che ad altri appaiono molli e volgari, che Hoffer difende e nello specifico l’unica società autenticamente “di massa” che il mondo abbia mai conosciuto. La società americana dei suoi anni.

Il tema è al centro di tutto quello che Hoffer scrive dopo The True Believer (poche raccolte si saggi brevi e alcuni aforismi che avrebbero bisogno di un’Adelphi per essere apprezzati quanto meritano) e soprattutto del suo libro più bello, The Ordeal of Change (1963), in esergo c’è una citazione di Montaigne (“La più grande cosa del mondo è saper essere per sé”). Il filosofo portuale comprende alla perfezione un tema continuamente lucidato da chi ama parlare di “diseguaglianze”. Il cambiamento produce vittime. “Una popolazione che subisca un cambiamento fondamentale è una popolazione di disadattati: squilibrata, esplosiva e bramosa di azione”. Ma “azione” vuol dire cose molto diverse. I milioni di emigranti arrivati in America dopo la guerra civile, ragiona Hoffer, “erano disadattati in tutti i sensi del termine e rappresentavano un materiale ideale per una esplosione rivoluzionaria. Ma avevano a disposizione un vasto continente e favolose opportunità di migliorare le proprie condizioni, oltre che un ambiente che attribuiva enorme valore al confidare in se stessi e all’iniziativa individuale”.

Nulla conta di più in una società, anche la più materialistica, che le sue illusione e le credenze che vi sono diffuse. “Qual è il più acuto problema che deve affrontare la dirigenza di un regime comunista?”, si chiede Hoffer. La risposta è: “come indurre la gente a lavorare”. Che sorpresa. Un movimento che doveva ottenere una trasformazione miracolosa dell’uomo e della società riuscito a trasformare in un miracolo qualcosa che per noi è naturale: la voglia di lavorare.

Ma la “volontà di lavorare” e il “senso pratico” non sono naturali per nulla. Per secoli “il lavoro è stato considerato una maledizione, il marchio della schiavitù, o, nella migliore delle ipotesi, un male necessario”. In questa parte di mondo, dalla regola di San Benedetto alla riforma protestante, qualcosa è cominciato a cambiare. L’individuo ha cominciato a sentirsi in qualche misura padrone della propria vita. È un pensiero per certi versi terribile, porta con sé la morte di molte certezze, “l’individuo autonomo rappresenta un’entità cronicamente squilibrata”. Su questo squilibrio s’innesta la promessa dei movimenti di massa e dei loro leader intellettuali: quella di un sacro Graal da trovare e di una guerra (metaforica e no) da vincere. L’adolescenza perpetua, la vita come gioco di ruolo.

La differenza fra l’Occidente e il resto del mondo è che qui pensavamo di aver imparato a diventare a adulti. In particolare, è attraverso il lavoro che “la maggior parte degli individui dà prova del proprio valore e riconquista il proprio equilibrio”. L’intellettuale direbbe che non è così che si dà un senso alla vita. Per carità, è verissimo. E tuttavia “la capacità di fare un giorno di lavoro e di venire pagati per esso ci trasmette un senso di utilità e di valore. L’importanza di avere un posto di lavoro nella vita di un individuo in Occidente si manifesta in modo particolarmente chiaro nello stato mentale dei disoccupati. Non v’è dubbio che la frustrazione prodotta dalla disoccupazione sia dovuta più al lacerante senso di impotenza che alle difficoltà materiali”.

Queste parole sembrano scritte su una cartolina ingiallita. L’America era la società del senso pratico, di un gusto quasi universale di aggiustare, sistemare, innovare. È lì che per la prima volta il mercante, l’artigiano, l’imprenditore hanno la meglio sullo scriba, su chi non produce nulla se non parole ed è dall’alba dei tempi “un ausiliario dei dirigenti, anziché un membro a pieno titolo dei lavoratori”.

Le persone comuni non sono “dottrinarie ed eroiche” ma, quando hanno potuto, hanno costruito una società a propria misura e questa è stata la società più prospera della storia, nella quale la frustrazione individuale diventava occasione per migliorare la propria condizione, e un poco anche per migliorarsi.

Eric Hoffer ha visto come nessun altro le tendenze suicide della modernità, che prendono la forma della preferenza per ciò che è eroico e grande e collettivo, contro le miserie conclamate del privato e del personale. “La gloria è un faccenda teatrale”. Anche l’harakiri.

Da Il Foglio, 30 luglio 2022

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