La cura del ferro fa bene ai ferrovieri, non al clima

Quella del cambio modale è una pessima politica ambientale

13 Luglio 2021

IBL

Argomenti / Politiche pubbliche

Il G20 di Venezia ha confermato che ormai la questione climatica è una priorità della comunità internazionale. L’Unione europea si è battuta per adottare forme di carbon pricing a livello globale in modo da contrastare l’incremento delle emissioni. Ma, al proprio interno, l’Ue è coerente? La risposta breve è: no.

Certamente, nell’ordinamento dell’Ue sono presenti elementi che vanno in questa direzione, come il sistema per lo scambio delle quote di emissioni e, probabilmente, la proposta di revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia, che vedrà la luce questa settimana. Ma, al tempo stesso, l’Ue si contraddice sistematicamente: anziché affidarsi a un sistema di prezzi del carbonio in cui sono le imprese a trovare gli strumenti e i settori in cui è più vantaggioso tagliare le emissioni, continua a distorcere il mercato attraverso allocazioni arbitrarie di sussidi. Il paradosso è che i sussidi sembrano tanto più generosi, quanto meno sono efficaci.

Un caso paradigmatico è quello delle ferrovie: in un paper congiunto dell’Istituto Bruno Leoni e di Bridges Research, pubblicato oggi. Francesco Ramella confronta l’enorme spesa degli Stati membri nella cosiddetta “cura del ferro” coi suoi risultati. Ebbene: i numeri dicono che i denari pubblici assegnati al trasporto ferroviario, più di mille miliardi nei primi tre lustri di questo secolo, hanno avuto risultati modesti: l’obiettivo dello spostamento modale del traffico dalla gomma al ferro, cardine della politica dei trasporti fin dal “Libro Bianco” del 2001, è del tutto fallito. Guardando al futuro, inoltre, si può stimare che il costo di abbattimento della CO2 grazie alla realizzazione di nuove linee AV, risulterà pari a 850-7.770 euro / tonnellata, contro un costo esterno delle emissioni stimato dalla stessa Ue in circa 100 euro e un costo dei certificati di emissione attualmente intorno ai 50 euro. Significa che, con le stesse risorse che servono per risparmiare una tonnellata di CO2 grazie alle ferrovie, se ne potrebbero tagliare tra 16 e 150 in altri settori dell’economia.

Questo non significa che non si debbano più costruire linee fer­roviarie (o metropolitane) i cui benefici (che si dovrebbero sempre valutare e confrontare con i costi) non si limitano a quelli di carattere ambientale ma dovrebbe risultare evidente che quella del cambio modale è una pessima politica ambientale.

Se gli investimenti nella cura del ferro non servono al clima e non servono neppure a svuotare le strade (le due cose sono, ovviamente, connesse), allora a chi servono? La risposta è quella più ovvia. Fanno anzitutto comodo ai beneficiari diretti: i passeggeri e le merci che beneficiano di infrastrutture pesantemente sussidiate ma soprattutto le maggiori imprese ferroviarie (che, guarda caso, sono quasi tutte controllate dagli Stati) e i loro fornitori. Anche il Governo italiano dovrebbe riflettere su questo aspetto, visto che gran parte delle risorse che il Pnrr dedica alla decarbonizzazione dei trasporti finiranno investite in nuove linee ad alta velocità che avranno costi unitari pari o superiori (si pensi alla Salerno – Reggio Calabria) a quelle già costruite e un traffico prevedibile molto inferiore. Altre decine di miliardi di euro a carico dei contribuenti con ancor minori benefici per la collettività rispetto al passato.

13 luglio 2021

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