Che ridere la Calabrexit. Ma davvero?

Lo sketch di Antonio Albanese in tv si basa sul presupposto che mai i calabresi potrebbero farcela da soli

27 Novembre 2019

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il “cettoqualunquismo” è buffo ma si schiera a difesa di un assetto istituzionale che da decenni penalizza la società

Intervenendo al programma Rai di Fabio Fazio, nei giorni scorsi il comico Antonio Albanese prossimamente nei cinema di tutta la penisola con un nuovo film “Cetto c’è, senzadubbiamente” si è dapprima definito “Re del Sud Italia” e poi ha pure proclamato una sorta di Calabrexit: ossia, l’uscita della Calabria dalla repubblica italiana.
Albanese è un ottimo attore: fa ridere e ha molte qualità. È chiaro, però, come quel suo intervento volesse ridicolizzare ogni ipotesi volta a proporre forme di autogoverno per il Mezzogiorno. E ovviamente, non c’è nulla di più serio dell’ironia; d’altro canto lo sketch di Albanese intende sostenere che non ha alcun senso immaginare che i calabresi possano amministrarsi da sé, né che abbiano l’intelligenza e la voglia di fare necessari a risolvere i loro problemi.
Sullo sfondo di tutto questo ci sono una serie di miti e di errori.

Unità sacra?
Innanzi tutto, tra le righe è evidente l’idea che l’unità nazionale sarebbe qualcosa di sacro, e l’uomo non può dividere ciò che Dio avrebbe unito. È per questo stesso motivo che in Spagna hanno messo in prigione l’opposizione indipendentista catalana e che i comunisti cinesi stanno perseguitando chi a Hong Kong si sforza di tutelare libertà tradizionali che Pechino non rispetta.
Nei decenni scorsi la cultura italiana era profondamente anti-nazionalista; oggi invece si è innamorata dello Stato, perché ha visto nel potere romano lo strumento cruciale di ogni redistribuzione. Staccare la Calabria dal resto d’Italia metterebbe fine al trasferimento di risorse: e questo è inaccettabile agli occhi di tanti, anche se gli esiti dell’assistenzialismo sono disastrosi.
Oltre a ciò, nemmeno si può escludere che questa avversione a ipotesi di autogoverno manifesti la convinzione che, da soli, i calabresi non potrebbero farcela. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a una forza di razzismo ingiustificato, perché se una piccola realtà come la Slovenia sta crescendo a vista d’occhio perché non potrebbe fare la stessa cosa la Calabria? Gli apologeti dello status quo sembrano dirci che gli aiuti elargiti alla Calabria sarebbero buoni, giusti e santi; l’unico errore è che sono stati male utilizzati.
Questi opinion leader da prima serata Rai dovrebbero, allora, guardare la realtà. Iniziando a constatare che la Calabria è, in tutta Europa, in fondo a varie statistiche e tra le altre a questa: solo il 29,1% dei laureati trova un’occupazione entro tre anni dalla fine degli studi. Si dovrebbe poi prendere atto che oggi il reddito e la qualità della vita della Romania sono molto più alti, anche se trent’anni fa c’era un abisso a dividere questi due mondi (e nel nostro Sud si stava molto meglio).

Un pericolo
Il cettoqualunquismo, allora, è pericoloso. Si schiera a difesa di un assetto istituzionale che da decenni penalizza la società calabrese, costringendo moltissimi ad andarsene. E le ragioni le conosciamo. In Calabria, un dipendente pubblico è pagato come a Milano. La conseguenza è la corsa verso il “posto fisso” su cui Checco Zalone ha scritto un saggio magistrale, con il suo film. La conseguenza è che gli uffici pubblici sono strapieni e il settore privato quasi inesistente. Per giunta, in ragione del fatto che la Calabria è in Italia, la tassazione è uguale a Como e a Vibo Valentia; imposte già elevatissime dove c’è un tessuto economico vivace sono però assurde tra Cosenza e Catanzaro. Non stupiamoci, alla fine, se l’evasione è altissima e se le imprese faticano. Per giunta, in ragione dei contratti nazionali non c’è alcun motivo – per un’azienda tedesca – di andare a investire in Calabria: meglio puntare su Bulgaria o Slovacchia.
Oggi la Calabria ha tutti i problemi di una regione debole, senza averne i vantaggi. In effetti, quando un territorio è povero (valeva per tutta l’Italia all’indomani del 1945) il costo del lavoro è basso e questo attira gli investimenti. Per giunta, la tassazione è moderata e anche la regolazione. Quando ci si trova in quelle condizioni, non è difficile crescere anche al ritmo dell’8% all’anno. Il guaio è che la Calabria non può decidere il costo del lavoro, il livello della tassazione, l’entità degli stipendi pubblici. E per giunta è invasa da una grande quantità di denaro prodotto altrove, che finisce per rafforzare il potere politico e indebolisce la società.
Queste sono le ragioni più vere del dissesto calabrese e ognuna di loro potrebbe trovare una via di soluzione se la Calabrexit non fosse messa alla berlina per tutelare il potere vigente, ma se si potesse ragionare con serenità in merito allo sfascio presente e alle possibili soluzioni.

da La Provincia, 27 novembre 2019

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