Che cosa dà un peso ai referendum

L'aumento dell'astensionismo porta a farsi due domande: cosa significa questo strumento e quali conseguenze può avere sulle consultazioni?

15 Maggio 2025

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

L’invito improvvido del presidente La Russa, seconda carica dello Stato, a non votare i referendum di giugno è l’occasione per guardare all’astensione come una foto in scala di grigio, anziché come una realtà in bianco e nero.

Tutti i primi referendum abrogativi, tra gli anni 70 e 80, raggiunsero il quorum. Si trattava di quesiti importanti come il divorzio, il finanziamento dei partiti, l’aborto, l’ergastolo, il possesso di armi, la scala mobile, il nucleare, la responsabilità civile dei magistrati. Nei 1990, le consultazioni su caccia e pesticidi per la prima volta non raggiunsero la maggioranza dei votanti, ma già nel 1991 l’esito del referendum in materia elettorale cambiò, come noto, la natura politica della repubblica italiana. Ad esso seguirono una serie di referendum del 1993 che raggiunsero il quorum perché trainati, in unica consultazione, da questioni che continuavano a toccare il cuore dell’organizzazione politica e di governo, scossa da Mani pulite e dalla crisi dei partiti della prima repubblica. Gli italiani dovevano votare, infatti, sul sistema elettorale per il Senato, sul finanziamento pubblico dei partiti, sull’abrogazione del ministero delle partecipazioni statali.

Stesse considerazioni valgono per i dodici quesiti del 1995, che avevano tra loro tematiche particolarmente sentite dall’opinione pubblica negli anni di nascita del berlusconismo, a partire dalla privatizzazione della Rai e dal sistema delle concessioni televisive. Si aprì poi un lungo periodo di fallimenti referendari, in parte per la natura delle questioni, troppo lontane o di difficile lettura per gli elettori (abolizione dell’ordine dei giornalisti, incarichi extra giudiziali dei magistrati, caccia, poteri di governo nelle aziende private, ordinamento giudiziario, trattenute associative e sindacali in busta paga), in parte per una vera e propria strategia di voto, come nel caso dell’art. 18 e della procreazione assistita. Anche il nuovo quesito in materia elettorale del 1999 non raggiunse il quorum, ma per pochissime migliaia di voti. Si dovette attendere un altro tema fortemente sentito e propagandato, quello sul nucleare e sull’acqua come bene comune, per una partecipazione consistente a favore del sì. Pochi anni fa, infine, l’organizzazione della magistratura ha confermato di essere un argomento per il quale le persone non vanno a votare.

I referendum costituzionali, che non hanno un quorum di validità e per i quali l’astensione non può essere una modalità di voto negativo, mostrano un aumento di affluenza dal 34% nel 2001 a più del 50% per i successivi, con un picco di oltre i165% per quello sulla riforma Renzi-Boschi.

Non è vero, quindi, che l’astensione è ormai una deriva della partecipazione politica in tempi di irreversibile crisi democratica. Piuttosto, è una combinazione di fattori, specie nel caso di referendum abrogativo, che rende un po’ più sfumata la realtà del voto come dovere civico.

Le persone sembrano ancora disposte a recarsi alle urne referendarie quando capiscono bene (o pensano di capire bene) l’oggetto ma soprattutto gli effetti diretti e indiretti del loro voto, quando si sentono coinvolte nelle cose che ritengono importanti e alla loro portata e vogliono cambiarle. Viceversa, l’astensione non è solo disimpegno, ma anzi —come è consentito dalle stesse regole di voto — può essere una manifestazione di dissenso sull’oggetto, o di sfiducia o distanza più generale verso decisioni e processi democratici in cui ritengono di essere inutilmente o capziosamente chiamati in causa. Quando Einaudi diceva che «nessun partito, grande o piccolo, vorrà procurarsi l’odiosità presso gli elettori di disturbarli continuamente per fare un referendum» stava dicendo una cosa molto semplice: le persone hanno i loro problemi, le loro vite, le loro preoccupazioni e per questo delegano un ridotto numero di eletti a occuparsi di ciò che non vogliono, non possono e non devono gestire direttamente.

L’astensionismo, nelle votazioni referendarie ma anche in quelle politiche, non è né un’onta né un vanto. Più semplicemente è una possibilità politica e costituzionale che va interpretata e capita, caso per caso, senza semplificazioni.

Gli estensori della Costituzione ne avevano piena consapevolezza, tanto da richiedere un quorum di validità per i referendum abrogativi e non per quelli costituzionali. Sapevano bene che l’astensione ha un valore politico su cui i partiti per primi avrebbero, nel caso, dovuto riflettere. Si illusero, però, sull’utilizzo accorto di questo strumento. Il PD, ad esempio, ha deciso di usare i quesiti di giugno su Jobs Act e lavoro per una conta interna. Ed è un peccato, perché nella convocazione c’è anche un referendum sulla cittadinanza che merita, invece, tutta la serietà dell’informazione e l’attenzione degli elettori. C’è da augurarsi che le prossime settimane siano più dedicate a questo quesito che non alle inutili provocazioni e polemiche.

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