Cambiamo assieme

Secondo John Micklethwait e Adrian Wooldridge, lo Stato per come lo conosciamo in Occidente è a un passo dalla bancarotta

8 Luglio 2014

Il Sole 24 Ore

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Negli anni Novanta Bill Clinton prometteva che «l’era del big government è finita». Le cose sono andate poi diversamente. Anche negli Stati Uniti, a torto o a ragione considerati la patria del libero mercato, il successore di Clinton, George W. Bush, allargò il raggio d’azione del pubblico come nessuno dai tempi di Lyndon Johnson, l’artefice della «Big Society». Per non dire dell’Europa.

E allora, se quella di Thatcher e Reagan è stata nel migliore dei casi «una rivoluzione a metà», davvero l’alternativa è rassegnarsi a una crescita irrefrenabile della cosa pubblica? Il peso dello Stato e della fiscalità non può che aumentare? Nel loro The Fourth Revolution: The Global Race to Reinvent the State, il direttore dell’Economist John Micklethwait e Adrian Wooldridge ci invitano a essere più ottimisti: dopotutto, lo Stato per come lo conosciamo in Occidente è a un passo dalla bancarotta, e questo è un forte incentivo all’autoriforma.

«Per il prossimo futuro, gli Stati dell’Occidente continueranno a toglierci cose, molte più di quante non immaginiamo». Ma fino a che punto questa rapacità è sostenibile? Lo stesso John Maynard Keynes, ricordano Micklethwait e Wooldridge, «sosteneva che lo Stato non dovrebbe mai consumare più di circa un quarto del prodotto interno lordo». Il «pellegrinaggio obbligatorio per chiunque voglia vedere il futuro dello Stato» è a Singapore. Quello costruito dal tecnocrate Lee Kuan Yew è uno Stato-mamma ma l’anziano autocrate, «più di ogni altro leader moderno, si è dedicato a limitare l’ambito della cosa pubblica e a far sì che gli individui fossero responsabili del proprio benessere». In Europa, «il problema dello Stato» è che ragiona come un’impresa conglomerata di cinquant’anni fa. Il processo decisionale è troppo centralizzato, e improntato a quello che gli autori chiamano «il gusto della burocrazia per l’uniformità». Il leviatano ha scarsa agilità di manovra, e anche per questo i gruppi che lo occupano e lo dirigono esibiscono una formidabile resistenza ai cambiamenti. Per aumentare la produttività delle burocrazie, servono profonde modifiche sul piano istituzionale e incrementi di produttività che possono venire dalle nuove tecnologie. È necessario riscoprire «la gioia del pluralismo», avvicinando quanto più possibile governanti e governati, e «il fascino della diversità», che significa passare da una produzione di beni pubblici rigidamente programmata dall’alto a risposte basate sui bisogni effettivi.

Come fare? I due autori ricordano che c’è una calcificazione dei processi democratici, che rende più difficile il cambiamento. Proprio per questo, suggeriscono di aprire la porta a tanti piccoli esperimenti. Il web, per esempio, può servire come strumento per «consentire alla gente di fare per sé ciò che lo Stato tendeva a fare per loro». O come strumento per parlare coi decisori: in Inghilterra il sito fixmystreet.com consente di segnalare le buche nel manto stradale.
Lo Stato di Micklethwait e Wooldridge è un fornitore di servizi, può salvare dall’obsolescenza solo se impara a sintonizzarsi sulla domanda dei suoi “consumatori”.

Da Il Sole 24 ore, 6 luglio 2014

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