Breve storia dei dazi, lunga serie di errori

Il protezionismo ha origini antiche, ma la casistica moderna comincia nella Francia di Luigi XIV e ha sempre ottenuto risultati fallimentari

12 Maggio 2025

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Politiche pubbliche

Nel momento in cui le cronache sono dominate dai dazi americani può essere utile ricordare alcune fasi storiche segnate dall’adozione di politiche protezioniste. E se ogni situazione fa a sé, è pur vero che il tratto comune di queste vicende sta nel fatto che la rinuncia al commercio internazionale ha complessivamente danneggiato l’economia di quanti hanno fatto tale scelta.

Le origini del protezionismo affondano nella notte dei tempi. Nel Seicento, ad esempio, fu quanto mai avverso al libero scambio Jean-Baptiste Colbert, il primo ministro di Luigi XIV, che colpì i prodotti di lusso, scoraggiò l’importazione di tutto quanto poteva essere realizzato in Francia e vietò pure l’esportazione di ciò che, lavorato all’estero, avrebbe potuto recare danno a qualche impresa francese.

Il primo episodio di grande rilievo, però, si ebbe al termine delle guerre napoleoniche, quando l’Inghilterra (su pressione dell’aristocrazia latifondista) introdusse leggi sul grano che impedivano l’importazione di cereali dal continente. Per trent’anni quelle norme rimasero in vigore, ma esse furono all’origine del movimento politico libero-scambista guidato dal manchesteriano Richard Cobden, che infine riuscì a fare accettare i principi etici ed economici del “liberismo”. Dopo avere persuaso il premier conservatore Robert Peel ad aprire l’economia ai prodotti stranieri (anche alla luce delle gravi difficoltà dell’Irlanda, colpita da una carestia), sarà lo stesso Cobden a firmare insieme a Michel Chevalier quel trattato anglo-francese che aprirà una fase di ampia globalizzazione dei mercati.

Dopo l’unità d’Italia

Tale liberalizzazione, però, non durerà molti decenni. In Italia, per esempio, ne11878 vennero introdotte tariffe a tutela del settore tessile e di quello siderurgico: nelle intenzioni dei politici del tempo si trattava di aiutare un’economia che arrivava dopo altre a fare i conti con la Rivoluzione industriale, ma questo colpì in particolare le aree più rurali, anche a seguito delle reazioni degli altri Stati europei.

La reazione di Parigi

Già in quegli anni infatti si sperimentò, e la cosa non deve stupire, che comprensibilmente i dazi producono “controdazi”. La cosa è irrazionale (dato che si basa sull’idea che un dazio colpisca i produttori e non già anche i consumatori), ma non di meno assai frequente. Poiché nel 1887 furono introdotte ulteriori tariffe a difesa dell’agricoltura, i nostri rapporti con le maggiori economie europee si deteriorarono velocemente. Dato che le nuove tariffe italiane colpivano in particolare grano, vino e prodotti industriali francesi, a Parigi si reagì duramente, introducendo dazi punitivi sugli agrumi, sull’olio d’oliva, sulla seta grezza e sul vino. Fu soprattutto questa guerra commerciale italo-francese a impoverire i ceti più fragili e a indurre molti nostri contadini a emigrare, abbandonando soprattutto il Mezzogiorno e il Veneto.

Va detto, a ogni modo, che il protezionismo è una sorta di fiume carsico, dato che la chiusura delle frontiere rappresenta una risposta apparentemente efficace (anche se nei fatti è tanto ostile agli altri quanto autolesionistica) di fronte ai problemi economici. E così gli anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale torneranno a essere segnati da dazi e barriere. Dopo il crollo della borsa del ’29, negli Stati Uniti la risposta data aggraverà la situazione: si tratta di quello sciagurato Smoot-Hawley Tariff Act che alzò i dazi su oltre 20 mila prodotti e causò una cascata di ritorsioni ovunque nel mondo. Pure in Italia, specie all’indomani della guerra d’Etiopia, il regime fascista adottò quella che chiamammo “autarchia”.

Anche dopo la Seconda guerra mondiale vi sarà chi sposerà logiche protezioniste. È questo il caso del Giappone, ma soprattutto dell’Argentina. Questa economia dell’America latina si trova tuttora in gravi difficoltà ed è proprio lo sfascio del sistema economico che spiega in larga misura il successo politico conseguito dall’attuale presidente, Javier Milei, che sposa le teorie più radicalmente antistataliste e sta iniziando a fare uscire il Paese dal baratro in cui era precipitato. Ma alla fine della guerra, la situazione era assai differente. L’Argentina era senza dubbio uno dei Paesi più prosperi del mondo intero, con un reddito pro-capite che era all’incirca il doppio di quello italiano.

Nel 1946, però, prese il potere Juan Peròn che non soltanto introdusse notevoli barriere commerciali, ma si ispirò pure alle politiche economiche keynesiane già adottate negli Stati Uniti da Franklin Delano Roosevelt, che moltiplicarono le aziende pubbliche e gli aiuti assistenziali. Curioso mix di elementi socialisti e fascisti, interventisti e conservatori, da allora in poi il peronismo dominerà quasi incontrastato la scena argentina, provocando un declino assai veloce. In molti casi i nipoti di coloro che avevano lasciato un’Italia assai povera per trovare opportunità a Buenos Aires saranno costretti a tornare in Europa.

Va aggiunta una considerazione, che può aiutare a inquadrare meglio il problema. Fin dai tempi di Colbert il protezionismo ha assunto varie forme. Se i dazi sono una barriera, un’altra può invece essere incarnata dai finanziamenti pubblici: come nel caso degli aiuti all’agricoltura, che assorbono all’incirca la metà del bilancio di Bruxelles.

Ci sono insomma tanti modi per impedire agli stranieri di commerciare con noi; ed è proprio per questo che non sarà facile uscire da simili logiche.

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