Banchiere fa' il tuo mestiere

Per anni gli istituti di emissione hanno creduto di poter risolvere qualsiasi problema. Senza riuscirci

17 Febbraio 2023

Tempi

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Politiche pubbliche

Il rifiuto della Fed americana di lanciarsi nella lotta al cambiamento climatico suona come una novità. Per anni gli istituti di emissione hanno creduto di poter risolvere qualsiasi problema. Senza riuscirci. Ora qualcuno ricorda il loro vero compito: tenere a bada l’inflazione 

Recentemente, il presidente della Federal Reserve Jerome Powell ha escluso che la banca centrale americana sarà un “decision maker” nella lotta al cambiamento climatico. Sembrano parole in controtendenza: la Banca d’Inghilterra ha ricevuto esplicito mandato, quando Rishi Sunak era cancelliere dello scacchiere di Boris Johnson, di occuparsi del riscaldamento globale e molti altri banchieri centrali hanno flirtato con l’idea. Solo il direttore generale della Banca d’Italia, Federico Signorini, e la vicepresidente della Bundesbank, Claudia Buch, avevano espresso con cautela un’opinione radicalmente diversa, scrivendo che gli istituti di emissione potevano dare un contributo alla lotta contro i cambiamenti climatici facendo anzitutto il proprio mestiere, perseguendo cioè la stabilità del prezzi. «Una politica chiave per il clima come il carbon pricing, ad esempio, ha un’efficacia ridotta se i prezzi non sono stabili». La riduzione delle emissioni deve essere “prezzata” correttamente e questo richiede un apparato segnaletico che funzioni: ovvero, un’inflazione sotto controllo. Il problema è che la posizione di Signorini e Buch è stata fin qui straordinariamente minoritaria, perché negli ultimi anni le banche centrali sono diventate istituzioni praticamente ubique, assi pigliatutto nei settori più diversi. 

La conquista dell’indipendenza 
Se volessimo ripercorrere la politica monetaria degli ultimi cinquant’anni in poche battute, la storia sarebbe più o meno questa. Dal Dopoguerra agli anni Settanta del secolo scorso, le banche centrali occupano una posizione ancillare rispetto agli Stati e alla loro politica di bilancio. Gli Stati spendono sempre di più ma le classi dirigenti sono convinte che sia possibile fare il “fine tuning”, la “messa a punto” delle rispettive economie, agendo su alcune variabili macroeconomiche. In tutti i paesi del mondo, i banchieri centrali si prestano volentieri all’impresa con una sola eccezione, la Germania. La Bundesbank ha l’obiettivo di conservare la stabilità dei prezzi. Il marco tedesco diventa la “valuta forte” per antonomasia, soprattutto in un mondo dove invece i banchieri centrali accomodano l’offerta di moneta rispetto alle decisioni dei politici e al deficit pubblico che ne consegue. Ciò si traduce in inflazione: da principio ritenuta l’inevitabile conseguenza dello sviluppo economico. 

Negli anni Settanta, questo approccio va in crisi, sia sul piano teorico che su quello dell’esperienza concreta. La cosiddetta “curva di Phillips”, l’idea cioè che un certo livello di inflazione sia necessario per mantenere alti tassi di occupazione, viene messa in dubbio dagli eventi. Le pressioni inflazionistiche diventano politicamente insostenibili: si alzano i prezzi, quindi si riduce il potere d’acquisto delle famiglie, i sindacati rivendicano aumenti salariali, eccetera, in un circolo vizioso che appare difficile da spezzare. C’è una storiella, probabilmente apocrifa, che ha per protagonista l’economista Ludwig Von Mises negli anni Venti del secolo scorso. Siamo in Austria, l’inflazione incalza, i politici si interrogano su come frenarla. «È facilissimo», spiega Mises. Interrogato su come davvero si possa fare, dà appuntamento a un autorevole interlocutore nelle tarde ore della sera, innanzi all’istituto di emissione. L’altro è perplesso. «È molto semplice, basta entrare e fermare le macchine che continuano a stampare scellini». 

Qualcosa del genere avviene fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Per contrastare l’inflazione, un po’ ovunque in Occidente si comincia a guardare all’esempio della Germania. Parole come “monetarismo” diventano inspiegabilmente popolari. Si riscopre un assunto fondamentale nella teoria economica, dai tempi di David Hume: il livello generale dei prezzi dipende dal rapporto fra le merci scambiabili e quella merce particolare (la moneta) che viene utilizzata per pagarle. È governando questo rapporto che si può fermare l’inflazione. Banche centrali che dipendano dalla politica fanno fatica a mantenere la stabilità dei prezzi. In Italia si era stabilita la prassi che la banca centrale acquistasse i titoli di debito: non farlo, ebbe a dire Guido Carli, sarebbe stato «sedizioso». Eppure anche in Italia, grazie a Beniamino Andreatta, si arriva al “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia: che vuol dire che lo Stato deve finanziare i propri deficit sul mercato. 

Successo e crisi 
Più che quello che avviene da noi, conta quanto sta succedendo negli Stati Uniti. Passato alla storia non a caso come il più coraggioso dei banchieri centrali, Paul Volcker rompe il torchio dei biglietti. In pochi anni l’inflazione passa dall’11 al 3,4 per cento. Nel contempo, autorevoli economisti ragionano sul rapporto fra politica monetaria e aspettative degli operatori economici. Emerge un consenso sulla necessità di porre una intercapedine istituzionale fra la gestione della moneta e la decisione politica. Così le banche centrali diventano “indipendenti”. Quando alcuni paesi europei decideranno di darsi una moneta unica, prenderanno spunto dalla prima delle banche centrali “indipendenti”: la Bundesbank. E si daranno così un unico obiettivo, cioè quello della stabilità dei prezzi, che non deve essere inquinato da intromissioni politiche di corto respiro. 

L’esperimento è stato un successo: dal 1983 fino al 2022, l’inflazione negli Stati Uniti non è mai salita sopra il 5 per cento. Per l’Italia, l’adesione all’euro ha significato tassi d’inflazione più bassi di quelli che aveva conosciuto dagli anni Sessanta in avanti. A partire dal 2007-2008, però, a un esito simile (bassa inflazione) si accompagnano politiche molto diverse. La crisi finanziaria vede le banche intervenire per sventare possibili fallimenti e dunque “sorpassando” la disciplina di mercato. In Europa, il problema non sono le banche ma gli Stati. In un caso e nell’altro, le banche cominciano a comprare strumenti finanziari. È il cosiddetto “quantitative easing”: gli istituti di emissione allargano il proprio perimetro, diventando grandi obbligazionisti e grandi azionisti di buona parte dell’economia privata. Con ciò dovrebbero sostenere l’economia ma anche indirettamente arrivare al proprio obiettivo di inflazione. Che invece la Bce regolarmente manca: per difetto prima, per eccesso ora. 

Con il “Qe” gli istituti allargano il perimetro. Dovrebbero sostenere l’economia ma anche arrivare all’obiettivo di inflazione. La Bce però lo manca regolarmente Nel breve, l’inflazione arriva solo per quanto riguarda i mercati finanziari: aumentano fortemente i valori degli asset. I prezzi dei beni di consumo sono probabilmente tenuti bassi da fattori che hanno poco a che vedere con gli istituti di emissione: l’evoluzione tecnologica e la globalizzazione, che aumentano disponibilità di beni e servizi e rivoluzionano le produzioni. Con il Covid-19, le società occidentali sono inondate di liquidità, perché gli stessi Stati che bloccano le economie devono sostenere il reddito delle famiglie. Le banche centrali sostengono le decisioni dei governi, con le politiche monetarie più espansive che si siano mai viste. Il rapporto fra merci disponibili e moneta per pagarle vive oscillazioni vigorose, e riparte l’inflazione. Stavolta anche per i beni di consumo. 

La moneta non è magica 
Dalla crisi del 2007-2008 i politici hanno tratto la conclusione che le banche centrali siano onnipotenti, e continuano a farci assegnamento. Ora qualcuno vorrebbe che si occupassero anche di cambiamento climatico. Sicuramente, assommano un impressionante numero di economisti e “tecnici” di alto livello. Ma proprio per questo forse negli ultimi anni abbiamo sperimentato la loro hybris: hanno perso qualsiasi senso del limite. Alan Greenspan era il “maestro” perché ritenuto in grado di sedare le inquietudini dei mercati, i suoi successori hanno varato interventi senza precedenti, portandoci in acque sconosciute. Soprattutto perché si sono rapidamente convinti che tassi zero o addirittura negativi potessero essere la “nuova normalità”: una normalità nella quale non esiste problema che non possa essere risolto dalla politica monetaria. Compreso il cambiamento climatico. Anni fa era quasi un luogo comune pensare che a uno strumento dovesse corrispondere un obiettivo. Oggi alla politica monetaria chiediamo di fare tutto. Solo che nessuno ha la bacchetta magica. E infatti mentre le banche centrali ragionavano su come accompagnare la transizione ecologica e quella digitale, è tornata l’inflazione. A Milano si direbbe: ofelè fa el to mesté. 

da Tempi, febbraio 2023

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