5 Maggio 2025
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Diritto e Regolamentazione
Più sono i compiti di cui si appropria la Federal Reserve, e più difficile sarà mantenerne l’indipendenza. Specialmente se, oltre a «esercitare poteri che appartengono al dipartimento del Tesoro», la banca centrale si occupa di «problemi sociali», dal cambiamento climatico all’inclusione, cui si possono dare diverse risposte politiche ma rispetto ai quali non esiste un approccio tecnico e neutrale. Il discorso di Kevin Warsh all’ultima riunione del Gruppo dei Trenta, lo scorso 25 aprile, è stato ampiamente ripreso dal Financial Times e dal Wall Street Journal. Warsh, oggi Visiting Fellow alla Hoover Institution di Stanford, ha fatto parte del Board della Federal Reserve dal 2006 al 2011, nel pieno della crisi finanziaria Nei mesi scorsi se ne è scritto come del più probabile successore dell’attuale governatore, Jay Powell, in caso Donald Trump decidesse di accompagnarlo alla porta anzitempo (altrimenti, il mandato di Powell scadrà nel maggio 2026).
Il possibile attacco alla Fed spaventa i colleghi di Powell degli altri Paesi. Trump ha già ridotto i margini di manovra di alcune autorità indipendenti, con l’ambizione di riportarle sotto il controllo del potere esecutivo. La Fed è un’altra storia. La politica monetaria americana non è solo americana: influisce sull’azione di tutti gli istituti di emissione. La stessa indipendenza delle banche centrali, negli ultimi cinquant’anni, è una vicenda che comincia Oltreoceano. La vera banca centrale indipendente era la Bundesbank, ma il rigore tedesco trovò pochi imitatori. Al di là degli aspetti formali, fu la vigorosa presidenza della Fed di Paul Volcker a dare coraggio ai colleghi in tutto il mondo, facendo della separa zione fra central banking e politica un valore almeno a parole unanimemente condiviso.
Il nome stesso di Volcker dovrebbe ricordarci che l’indipendenza non è un attributo del ruolo ma una conseguenza di come lo si interpreta. Dalla crisi finanziaria del 2007-2008 in avanti, è difficile trovare esempi preclari di banchieri centrali insensibili alle sirene della politica. Che ha moltiplicato le proprie richieste: l’esperienza del quantitative easing ha consolidato l’opinione che gli istituti di emissione fossero sostanzialmente onnipotenti. I governi in difficoltà hanno bussato alla porta delle banche centrali ed è stato loro aperto. La Fed come la Bce, ma anche la nostra Bankitalia, custodiscono il capitale umano di più alta qualità a disposizione della sfera pubblica. Le persone intelligenti sono spesso anche ambiziose, quasi sempre sono presuntuose. Vedersi offrire su un piatto d’argento nuovi problemi da risolvere ne ha stuzzicato l’orgoglio.
Solo che più le banche centrali si sostituiscono alla politica e meno è probabile che possano pretendere di essere immuni dalla sua influenza. La «vanità» dei presidenti di Fed e Bce ha fatto il resto. Da Alan Greenspan in poi, il banchiere centrale è diventato un personaggio da copertina. La discesa in campo di Mark Carney è solo l’ultimo caso che dimostra come la spettacolarizzazione del ruolo consegni i tecnici alla politica, in una posizione che nessuno può più immaginare sia neutrale.
Quelle di Warsh non sono considerazioni ad personam, e non solo perché il suo intervento sostituiva quello di Carney, ormai ex presidente del Gruppo dei Trenta, in altre faccende affaccendato. Il suo primo richiamo è stato all’umiltà epidemica, espressione cara a osservatori come Jeffrey Friedman e Wladimir Kraus (autori di un importante, ancorché sfortunato, libro sulla crisi finanziaria) o in Italia Antonio Foglia, per cui i banchieri centrali tendono a presumere troppo, quanto alla loro capacità di aggiustare i mali del mondo.
In un ambito, quello dei centrai banker, in cui lo standard retorico oscilla fra la più assoluta impenetrabilità e la rifrittura dei luoghi comuni, il discorso di Warsh è un piccolo capolavoro di ragionamento critico sulle istituzioni: che per generare fiducia, devono meritarsela. Ciò significa che debbono anzitutto conoscere i propri limiti. I limiti imposti dalle norme, quelli che dovrebbero venire «dal buon senso dei leader», il quale dovrebbe comprimere «la tendenza intrinseca ad espandere la propria impronta». Ma anche i limiti inevitabili dell’expertise tecnico. Disporre di informazioni che aiutano a leggere meglio un certo spicchio di realtà non significa conoscere tutte le variabili.
La grande inflazione degli ultimi anni, spiega Warsh, va inserita in una cornice di «errori intellettuali». Le banche centrali hanno perso di vista il proprio obiettivo tradizionale (la stabilità monetaria) perché, mentre ne perseguivano degli altri, hanno dimenticato che la politica monetaria è anzitutto governo della moneta e hanno sostenuto che l’inflazione fosse dovuta «a Putin e alla pandemia anziché all’aumento di spesa pubblica e denaro circolante». Un osservatore malizioso potrebbe insinuare che il discorso di Warsh voleva offrire una rassicurazione circa la sua, personale, autonomia dall’amministrazione, oppure che ha rappresentato un modo elegante per fare capire a Trump di non essere interessato al posto. La seconda spiegazione è meno improbabile della prima: circostanze familiari fanno sì che l’economista newyorkese sia il tipo che può sempre tenere la lettera di dimissioni in tasca. «Giudica i prodotti e non gli autori», ammoniva Karl Popper. Men che meno le intuizioni degli autori. La specializzazione rafforza le istituzioni e ne garantisce la libertà. Più ruoli provano a giocare, meno potranno sottrarsi all’influenza della politica. La moneta serve a consentire gli scambi, non a salvare il mondo. Chiunque sarà il nuovo presidente della Fed, saremmo fortunati se ragionasse così.