Autonomie, è necessaria una nuova cultura al Sud

Se il Mezzogiorno aperto alle sfide del mercato alzerà la testa, le prospettive di tutta l'Italia saranno diverse

22 Novembre 2022

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Politiche pubbliche

E’ bastato che il ministro Roberto Calderoli iniziasse ad avanzare qualche ipotesi piuttosto generica in tema di autogoverno locale, riaprendo dopo cinque anni il dossier dell’autonomia differenziata (che aveva portato ai referendum di Lombardia e Veneto), e si è subito scatenata la bagarre. Tra quanti hanno espresso un netto rifiuto nei riguardi di tutto ciò, forse il più duro è stato Michele Emiliano, già magistrato e ora presidente della Puglia, che è arrivato ad affermare che la bozza elaborata dal ministro violava i principi della Costituzione. In verità, quasi tutta l’élite meridionale – e non è una novità – sembra voler rigettare ogni confronto in materia. 

Questo ultimo episodio è soltanto servito a scatenare la reazione populista e demagogica del ceto politico-burocratico del Sud, che oggi più che mai sembra schierato a difesa dello status quo: e questo a dispetto del fatto che non esiste, nelle regione settentrionali, qualcuno che veramente stia proponendo né una riduzione dei trasferimenti, né una richiesta di autodeterminazione. 

Nei decenni scorsi la situazione era diversa. Anche se poi s’è capito che molte erano semplici chiacchiere e che la Lega bossiana era essenzialmente interessata ad accrescere il proprio potere sullo scacchiere romano, è però fuor di dubbio che ci fu un momento in cui fu davvero evocata l’ipotesi di liberare le diverse comunità che compongono la Repubblica, restituendo potere costituente ai vari territori. Oggi non è così e nemmeno esiste una forza che chieda realmente di ridurre il flusso delle risorse che lasciano un’area (quella in cui sono prodotte) per essere spese in un’altra. Nonostante il fatto che non vi sia più nessuno che parli di secessione, di riforma federale e del diritto di essere “padroni a casa propria”, è come se il vecchio ceto politico del Mezzogiorno operasse una sorta di azione profilattica, così da evitare conseguenze impreviste. 

Questo persistente meridionalismo di Stato è davvero preoccupante, dato che in tutti questi decenni di assistenzialismo il Sud ha sempre perso terreno. Non esiste alcuna possibilità di sostenere in maniera argomentata che le scelte politiche che furono teoricamente adottate “per favorire lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno” abbiano prodotto risultati. Certamente – come queste reazioni pubbliche attestano – c’è chi ha tratto e continua a ricavare enormi benefici dalla spesa pubblica, ma tutto ciò non produce una crescita economica e civile. 

C’è allora bisogno di un altro meridionalismo: c’è soprattutto la necessità di un’alleanza tra la piccola e media impresa meridionale che vive di mercato e quegli intellettuali del Sud (sono pochi, ma ci sono) che ritengono che i sussidi statali siano un veleno, e non già un farmaco. Se questo Mezzogiorno aperto alle sfide del mercato alzerà la testa, le prospettive di tutta l’Italia saranno diverse. Perché è soltanto da questi due settori della società meridionale, in cui in si collocano quanti vogliono essere liberi d’intraprendere e rivendicano con orgoglio la loro storia e la loro identità, che può venire un futuro migliore: per il Mezzogiorno e anche per gli altri territori della Repubblica.

da La Provincia, 22 novembre 2022  

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