Antonin Scalia, padre dell'originalismo e del testualismo era anche garantista

Giuseppe Portonera ha scritto la prima monografia in italiano dedicata all'ex giudice della Corte suprema americana

31 Agosto 2022

Il Dubbio

Francesco d’Errico

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

La Corte suprema americana è stata di recente oggetto di grande attenzione da parte di tutti i media internazionali. La decisione Dobbs v. Jackson Women Health Organization con cui i giudici hanno annullato, facendo overruling, la storica sentenza Roe vs Wade, ha scatenato, come comprensibile, aspre critiche e innumerevoli polemiche politiche. Nel mirino, così, oltre ai giudici Alito, Thomas, Gorsuch, Kavanaugh e Barrett è finito anche l’originalismo giuridico, metodo interpretativo attraverso il quale “le leggi, compresa la Costituzione, devono essere interpretate secondo il significato che un cittadino, al tempo della promulgazione, avrebbe assegnato al loro tenore letterale”.

È infatti attraverso l’utilizzo di questo canone interpretativo che la Supreme Court of the United States è giunta alla conclusione, con una maggioranza di 5 a 3 (contrari Breyer, Sotomayor, Kagan), che il diritto all’aborto non è più un diritto di rango costituzionale: la competenza della disciplina che lo riguarda appartiene agli stati della federazione.

Massimo esponente dell’originalism è stato senza alcun dubbio Antonin Scalia, giudice della Corte dal 1986 al 2016, di cui Giuseppe Portonera, dottore di ricerca in Diritto civile presso l’Università Cattolica di Milano e Forlin Fellow dell’Istituto Bruno Leoni, si è ampiamente occupato, scrivendo la prima biografia monografica in lingua italiana dedicata al noto giurista americano. Leggere “Antonin Scalia“, edito da IBL Libri, (collana Classici Contemporanei), può rappresentare un’importante occasione per conoscere non solo la judicial philosophy di uno dei più importanti ed influenti justice della storia statunitense, ma anche per approfondire più in generale il modello ermeneutico testualista.

Secondo i detrattori, questo criterio altro non sarebbe che uno scudo per difendere scelte di natura marcatamente politica di stampo conservatore, tanto che per molti è automatica la sovrapposizione tra il conservatorismo politico e questa theory of interpretation. Anche se una comunanza tra i due elementi è innegabile (è sufficiente, per questo, scorrere le nomine dei giudici alla Corte da parte dei presidenti repubblicana), Portonera sostiene che sia un errore considerare “l’originalismo e il testualismo” dei “metodi ‘politicamente’ conservatori, come confermato dal fatto che diversi intellettuali americani, sia libertari che progressisti, si considerano originalisti e testualisti”.

In tal senso, un aspetto ben messo in evidenza dall’autore, utile per evitare di scadere in banalizzazioni che non aiutano a cogliere la complessità del fenomeno in questione e a comprendere Scalia fino in fondo, è l’impossibilità di prescindere dal contesto federale. E in effetti, “per Scalia, nulla era più importante della separazione dei poteri tra i rami del governo inscritta nella Costituzione federale, una separazione-come pensata dai padri fondatori totale, ossia con una distribuzione dei poteri, nella loro interezza, a singoli attori, e non una loro condivisione”.

Per il lettore continentale, poi, in modo particolare per il penalista, proprio per questa ragione, alcune posizioni assunte negli anni dal giudice di origine siciliana possono apparire tra loro contraddittorie: “l’esame della giurisprudenza di Scalia in materia penale rivela tendenze che possono apparire di difficile complementarità. Nel corso della sua carriera, infatti, Scalia ha votato consistentemente per ribadire la costituzionalità della pena di morte. Allo stesso tempo, però, ha scritto diverse opinions che hanno contribuito a rafforzare lo statuto garantistico del diritto penale federale. Come si conciliano queste tendenze? La risposta viene, ancora una volta, dalla metodologia originalista: Scalia non era disposto a leggere nelle norme costituzionali né più di quanto in esse è scritto, anche quando ciò avrebbe rafforzato la posizione dell’imputato, né meno di quanto esse pianamente prescrivono, anche quando ciò avrebbe rafforzato il ruolo della pubblica accusa. Per Scalia, spetta ai legislatori fissare il punto di equilibrio tra le garanzie individuali e i meccanismi di difesa sociale, mentre ai giudici è demandato il compito di preservare intatto il valore di quell’enunciazione e, là dove necessario, applicarlo a nuove circostanze di fatto”.

L’errore più grande che si può fare nel valutare l’originalismo, quindi, sembra essere quello di disancorarlo dal sistema nel quale è nato e si è sviluppato, indossando le lenti dell’ideologia e lasciando nel cassetto il necessario filtro del giurista. Come ogni metodo interpretativo, chiaramente, è opinabile, ma quel che non appare corretto è criticarlo esclusivamente sulla base del risultato che esso produce, a seconda della propria sensibilità politica, non valorizzandone, non necessariamente in senso positivo, il vero nucleo metodologico e filosofico, valevole a prescindere dall’oggetto trattato dalla Corte Suprema, riassumibile nella formula “no social transformation, without rappresentation“.

Non si può, in sostanza, criticare il metodo solo quando le decisioni cui esso porta non sono gradite, così come non si può lodare l’importanza di una stringente separazione dei poteri (a maggior ragione in un sistema federale) esclusivamente quando si giunge a ciò che più piace: si tratterebbe di un imperdonabile atto di disonestà intellettuale.

Al netto di ogni altra possibile legittima considerazione, Portonera, oltre aver sintetizzato e raccolto in maniera certosina e coinvolgente i tasselli più importanti della carriera e del pensiero di Scalia, ha il merito di far riflettere su un passaggio centrale dei nostri giorni, così caratterizzati dal creazionismo giudiziario e dal cosiddetto post-diritto: qual è la funzione del giudicante? Si tratta di un garante che agisce come organo neutrale o, al contrario, di un ruolo da ricoprire con l’habitus mentale dell’attivista? E’ il giudice a dover scegliere cosa è giusto o sbagliato o sono le Costituzioni e le leggi, come prodotto legittimato dal percorso democratico, a doversi fare carico, nel più ampio e popolare dibattito pubblico, di questo gravoso compito? Abbandonare il modello utopico del giudice bouche de la loi è una scelta quasi obbligata, farsi travolgere dalla casualità della discrezionalità giudiziale per fortuna no. Anche per questo la monografia di Portonera merita di essere letta.

da Il Dubbio, 31 agosto 2022

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