Anche in Messico i populisti osteggiano le grandi opere

Il nuovo governo di Obrador interrompe l'ammodernamento dell'aereporto

3 Dicembre 2018

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Che problema hanno i populisti con le infrastrutture? Per una volta non parliamo dell’Italia, ma del Messico. Insediatosi ufficialmente ieri, il nuovo Presidente, Andrés Manuel López Obrador, arriva al potere sull’onda di uno straordinario successo elettorale. A luglio ha incassato oltre il 50% dei voti, vincendo in trentuno stati su trentadue. In un Paese dove purtroppo la corruzione e la mancanza di sicurezza sono ben più che «percezioni», «AMLO» ha sgranato tutto il rosario populista.
La sua vicenda politica, e le sue proposte, affondano le proprie radici in quella che Mario Vargas Llosa definì «la dittatura perfetta»: il caudillismo senza caudillos del Partito Rivoluzionario Istituzionale, al potere ininterrottamente dal 1929 al 2000.
La storia di López Obrador è quella di un capopopolo socialista, che per vincere ha finto di cambiare pelle, meno Chavez e più Blair. Nell’ultimo mese, però, l’economia ha dato segni di inquietudine: il peso si è fortemente deprezzato, la Borsa è ai minimi degli ultimi nove anni.
Che cosa spaventa gli operatori economici? AMLO e la sua maggioranza hanno deciso di sospendere i lavori per il nuovo aeroporto di Città del Messico.
L’hub messicano è il primo per traffico passeggeri in America Latina. Nel 2014, è partito un grande progetto di ammodernamento, frutto di una collaborazione pubblico-privato, per un valore di oltre 13 miliardi di dollari.
Per finanziare l’opera sono stati emessi circa 6 miliardi di bond: ad oggi, essa è già stata completata per circa il 40%.
AMLO contesta l’impatto ambientale del nuovo scalo ed è convinto che dietro ci sia l’ennesima storia di corruzione. Per questo, ha fatto appello al «suo» popolo, con un referendum organizzato lo scorso 29 ottobre dal quale è uscito un netto «no» alla nuova infrastruttura. Peccato che a questa festa della democrazia diretta abbia partecipato solo l’1% degli elettori.
Ogni Paese è diverso, ogni governo è diverso, ma per capire come possono andare a finire gli esperimenti sovranisti l’America Latina offre abbondanza di esempi. Per almeno un secolo la politica democratica lì è stata teorie della cospirazione smerciate all’ingrosso, diffidenza nei confronti degli investitori internazionali (colonialisti sotto mentite spoglie), speranze di una catarsi della politica affidata a leader messianici. In questo quadro, le infrastrutture sono di solito una leva di consenso: lo strumento più consueto per creare occupazione, far scavare delle buche e farle riempire. Perché ora le cose paiono essere cambiate?
Contano i temi ambientalisti e la necessità di marcare la distanza col passato. Soprattutto, però, la politica che riafferma il proprio primato deve dare una prova di forza. Non può stare alle regole: neppure a quelle che essa stessa si è data. La «sostanza» (le pur vaghe accuse di corruzione) deve prevalere sulla «forma» (i contratti già firmati). Perché lo Stato dovrebbe mantenere la parola data, come un cittadino qualsiasi?
Per quanto alcuni abbiano letto la mossa sull’aeroporto come un intenzionale sgambetto ad una classe imprenditoriale che non lo ama, López Obrador si è subito affrettato a promettere, a quegli stessi imprenditori, altri contratti: non si sa ancora bene per che cosa, quel che conta è che sarà il nuovo Presidente ad affidarli.
E’ una vecchia storia. Tutti gli strumenti che abbiamo sperimentato per limitare il potere sono imperfetti: dalle Costituzioni agli appalti messi a gara. Proprio l’insoddisfazione per la loro imperfezione rafforza l’idea che il potere non vada regolato, limitato, imbrigliato: bensì affidato a persone «oneste». Ai «buoni» tutto dev’essere permesso, inclusi i delitti peggiori.

Da La Stampa, 2 dicembre 2018

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