Amici miei No euro

Euro, Fiscal compact, Bolkestein, bail-in: una catena di affetti che né Salvini né Di Maio possono spezzar

6 Settembre 2017

Il Foglio

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Ora che è morto Gastone Moschin, per spiegare di fronte a quale situazione si trovano Luigi Di Maio e Matteo Salvini dopo aver rinunciato (per adesso) all’uscita dall’euro, si può usare una scena di “Amici miei”. Quella in cui Moschin nei panni dell’architetto Melandri chiede al professor Sassaroli la mano della moglie Donatella e il Sassaroli accetta, a patto che il Melandri si prenda pure il cane e le bambine: “Vede architetto – dice il Sassaroli – è tutta una catena di affetti che né io né lei possiamo spezzare: lei ama mia moglie, mia moglie è affezionatissima a Birillo, Birillo adora le bambine, le bambine sono attaccatissime alla governante tedesca. Insomma, chi si prende Donatella deve per forza prendersi tutto il blocco”.

Un po’ come la scelta d’amore del Melandri ha un impatto sul suo programma di vita, così la recente inversione a U sull’euro dei due principali partiti antisistema – Movimento 5 stelle e Lega nord – non è priva di conseguenze sui loro programmi. Infatti, l’abbandono della moneta unica (e, sotto sotto, dei vincoli dell’appartenenza all’Unione europea) rappresentava l’artificio attraverso cui le loro piattaforme potevano vantare una qualche forma di coerenza interna. Tutti i problemi di copertura potevano essere risolti attraverso un aumento del deficit o stampando moneta. Parimenti, il tentativo di sviluppare una politica pro business (ma non pro market) garantendo protezione agli operatori nazionali presupponeva la rottamazione delle direttive europee. Ora, la strada per Luigi Di Maio e Matteo Salvini appare in salita ripidissima. Proviamo a fare una sintetica carrellata dei pilastri dei rispettivi programmi.

Anzitutto, il piatto forte della proposta politica populista è molto costoso. I grillini, col reddito di cittadinanza, invocano più spesa (20 miliardi dicono loro, ottimisticamente). I leghisti, con la flat tax, chiedono invece meno tasse (14 miliardi sostengono, ancora più ottimisticamente, peraltro prevedendo di coprirli in parte tagliando i contributi al bilancio Ue). Di fatto, un impegno così gravoso e in realtà pesantemente sottostimato può essere sostenuto solo al di fuori del vincolo di bilancio. Anche assumendo che gli effetti di medio termine siano positivi, e che non comportino il default del paese, il Patto di stabilità e il Fiscal compact impongono di finanziare tali politiche con un piano senza precedenti di riduzione della spesa pubblica, che non solo appare difficilmente percorribile, ma che contrasta proprio con l’impostazione tutta anti austerity di queste forze politiche.

Anche i secondi piatti del menù sovranista presentati come alternativa all’uscita dall’euro – siano essi la moneta fiscale dei cinque stelle o i minibot della Lega – sono brutalmente incompatibili coi trattati europei, perché si traducono o in un aumento del deficit (che non è consentito) o nell’introduzione di una moneta parallela (che è vietata). Allo stesso modo, senza l’abbandono dell’Europa, altri pilastri della politica anti sistema vengono a cadere. Il caso più clamoroso è quello della direttiva Bolkestein: quando, per esempio, Virginia Raggi (e altri sindaci) si schierano apertamente contro le regole europee e si impegnano a non applicarle, si stanno ponendo fuori dal diritto dell’Unione ed espongono il nostro paese non solo a dover correre ai ripari, ma anche al rischio di sanzioni. È la stessa condizione del dibattito incendiario sulle banche: Lega e M5s hanno a lungo protestato contro il cosiddetto bail-in, proponendo invece in alternativa un bail-out pubblico per rimborsare tutti gli investitori degli istituti in crisi. Ma questo tipo di intervento entra in conflitto con la direttiva Brrd (Bank Recovery and Resolution Directive), nata proprio per far pagare gli investitori attraverso il bail-in e il burden sharing anziché i contribuenti attraverso il bail-out. Una scelta che non trova fondamento solo nella difesa dei conti pubblici, ma anche nella tutela della concorrenza. E che dire della difesa dell’italianità delle nostre imprese? Il mercato interno si sostanzia proprio nel principio di non discriminazione di imprese straniere, anche quando vogliono acquisire i nostri presunti gioielli di famiglia. Idem per quanto riguarda la concorrenza da parte di produttori provenienti da altri stati membri: il protezionismo non ha ragione di esistere all’interno dell’Unione.

Per avere un’idea chiara dell’implicazione devastante dell’accettazione dell’euro sull’impostazione dei partiti populisti, è sufficiente scorrere gli emendamenti presentati a qualunque provvedimento in discussione in Parlamento. Un numero incredibilmente elevato cade sotto la scure dell’articolo 81 della Costituzione: non possono essere approvati, ma neppure votati in quanto violano l’obbligo di equilibrio strutturale del bilancio. Molti altri, pur privi di effetti diretti sulle casse dello stato, vengono respinti perché contraddicono le regole dell’Ue.

È tutta una catena: puoi scegliere di tenere l’euro, ma alla base dell’euro c’è il mercato comune con la libertà di circolazione di persone (il lavoratore romeno), beni (gli ortaggi spagnoli), capitali (le imprese straniere) e servizi (l’idraulico polacco). È inoltre inscindibile dal Fiscal compact, ed è legatissimo alla direttiva sul bail-in che è una componente fondamentale dell’unione bancaria.

Come con Donatella, Birillo, le bambine e la governante, chi si prende la moneta unica deve, per forza e per fortuna, prendersi tutto il blocco. Per dirla con il Sassaroli, l’euro è una catena di affetti che né Salvini né Di Maio possono spezzare.

Da Il Foglio, 6 settembre 2017

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