All’Europa manca un ecosistema per innovare e rompere gli schemi

Il modello normativo europeo premia chi migliora l’esistente e non chi crea qualcosa di completamente nuovo

9 Maggio 2025

Il Riformista

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi IBL

Ilaria Donatio

Argomenti / Economia e Mercato

Che rapporto c’è tra innovazione e regolazione? È la domanda delle domande. Quella che nell’intervista a Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, non viene mai esplicitamente fuori ma che, alla fine della conversazione, sollecita l’unica risposta che conta. Perché si può discutere all’infinito di quanto e come i dazi e le tensioni geopolitiche influiscano sul mercato digitale globale. E, soprattutto, della possibilità di misurare l’impatto che le scelte caotiche del presidente Trump hanno sull’economia in generale e su quella digitale in particolare. Ma resta una certezza in questo passaggio storico tanto delicato: per recuperare il divario con Stati Uniti e Cina, l’Europa dovrebbe creare un ecosistema in cui l’innovazione possa nascere dal basso, attraverso tentativi, errori e fallimenti.

«Oggi si parla molto di intelligenza artificiale come ambito strategico – spiega Stagnaro – ed è vero che l’IA è destinata a diventare il nuovo standard tecnologico. Ma il punto non è individuare dove spingere gli investimenti: il punto è lasciare che le persone provino, sperimentino e sbaglino. La storia dell’innovazione ci insegna che, per ogni Steve Jobs o Mark Zuckerberg, ci sono migliaia di imprenditori che hanno fallito e quei fallimenti sono la precondizione perché qualcuno, alla fine, abbia successo. Non possiamo sapere ex ante chi avrà successo e in cosa: l’unico modo è garantire un ambiente dinamico, che consenta di sbagliare e riprovare». Un approccio che si scontra, secondo Stagnaro, con la cultura regolatoria europea: «Oggi non abbiamo nemmeno una big tech europea tra le prime al mondo. Credo che questo dipenda dal nostro modello economico e normativo, che premia chi migliora l’esistente ma non chi crea qualcosa che ancora non c’è». Insomma, è come se fossimo specializzati nel perfezionare prodotti, non nel rompere gli schemi. Eppure l’Europa ha risorse su cui contare: «Non manca il capitale economico, né il capitale umano.

Non c’è motivo per cui un Elon Musk o un Jeff Bezos non possano nascere in Europa. È probabile che ci siano già: solo che qui non riescono a crescere, o devono andare negli Stati Uniti per trovare l’ambiente giusto per scalare». Sul fronte delle politiche europee, Stagnaro esprime forti riserve: «Il Digital Markets Act è esattamente l’esempio di ciò che non funziona. Parte dall’idea che certe imprese, solo perché grandi, debbano essere limitate o sotto poste a obblighi extra. Questo approccio rallenta sia l’innovazione sia l’adozione di innovazioni. Basta guardare all’effetto immediato: il DMA ha ritardato – e in certi casi impedito – l’uso in Europa di alcuni servizi di intelligenza artificiale disponibili altrove. È davvero una tutela del consumatore europeo? O è una forma di impoverimento, perché riduce le opzioni disponibili?». Anche per il Chips Act, vale lo stesso discorso: «Sono soldi, certo. Ma il problema dell’Europa non è la mancanza di fondi: sono le regole sbagliate. Se il sistema normativo e regolatorio è bloccante, puoi iniettare tutte le risorse che vuoi, ma non crei un ecosistema innovativo».

La rigidità normativa si riflette anche sulla difficoltà per le startup di accedere ai capitali. Stagnaro cita uno studio di Casimiro Nigro e Luca Enriques, “Venture capital e diritto societario italiano: un rapporto difficile”, che analizza i contratti standard usati dai fondi di venture capital: «In Italia, molte delle clausole utilizzate a livello internazionale sono considerate illegali oppure borderline; come minimo, dovranno essere vagliate in tribunale. Così, un fondo che usa contratti standardizzati nel resto del mondo si trova qui a dover affrontare rischi legali imprevisti. È chiaro che un investitore, di fronte a questa incertezza, preferisca evitare. E questo taglia fuori molte startup italiane da finanziamenti internazionali». Un ostacolo che si aggiunge a quello culturale: «Ci sono tante startup italiane con idee innovative che potrebbero emergere, ma faticano a trovare investitori disposti a correre il rischio. Gli investitori stranieri, abituati a operare in un certo modo, si trovano di fronte a un ambiente normativo che li scoraggia. E alla fine dicono: vado a investire altrove».

Lo scenario globale, già complesso, è reso ancora più incerto dalle tensioni geopolitiche e dalla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. Il direttore ricerche e studi dell’Ibl non vede benefici nel protezionismo: «Ci sono segnali che questa fase di caos stia iniziando a rientrare, semplicemente perché le politiche tariffarie hanno avuto un effetto negativo anche sull’economia americana. Prima o poi l’amministrazione dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni». Ma resta il danno alla fiducia globale: «Questo modo di agire, fatto di mosse imprevedibili – oggi metto un dazio, domani lo tolgo, dopodomani lo raddoppio – contribuisce a creare un sistema caotico e a ridurre la fiducia reciproca. È l’opposto di ciò che serve all’innovazione».

Guardando ai prossimi dieci anni, Stagnaro non prevede una leadership europea nel digitale, ma intravede la possibilità di iniziare a giocare un ruolo: «Non sarà facile, ma l’Europa può cominciare a esserci, a contare. Purché cambi approccio: non serve una strategia verticale che dica “puntiamo tutto su questo settore”, ma un ambiente in cui le idee possano nascere, crescere, anche fallire, fino a diventare qualcosa di grande. È lì che si fa la differenza».

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