L'alibi del partito della spesa

Tempi eccezionali non giustificano qualsiasi intervento. Il doppio messaggio pericoloso che il governo lascia sulle finanze pubbliche

8 Agosto 2022

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Prima delle elezioni, i governo tendono a essere particolarmente generosi. Di solito, è perché i loro leader sono in procinto di sottoporsi al giudizio degli elettori e provano a guadagnarne la benevolenza. In Itala oggi c’è un governo dimissionario che non ha queste velleità. In carica per il disbrigo degli affari correnti, dovrebbe essere la miglior garanzia per un presidio, almeno temporaneo, dei conti pubblici. La situazione in cui ci troviamo è senz’altro eccezionale, con il ritorno dell’inflazione che si fa sentire soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione, quelli che la misurano alla cassa del supermercato.

È per questa ragione che l’esecutivo ha preso due decisioni che sarebbero state, in altri tempi, controverse, e che ci saremmo aspettati l’opposizione contestasse. Da una parte, a fronte di entrate fiscali superiori al previsto di circa 14 miliardi, ha scelto non di ridurre il disavanzo atteso, mantenendo immutato il perimetro della spesa, ma di impiegare quei quattrini in ulteriori «aiuti». Una dote sostanziosa, che si somma ad altre misure analoghe degli ultimi mesi che, come gli sconti sulle accise della benzina, chi succederà a Mario Draghi dovrà in qualche modo confermare, pena perdere la faccia nei primi mesi a Palazzo Chigi. Dall’altra proprio con questo nuovo Dl aiuti, il governo ha deciso di anticipare all’autunno l’indicizzazione delle pensioni all’inflazione. Si tratta di una operazione del tutto inedita e non a costo zero.

L’aumento dei prezzi di un anno viene recuperato dagli assegni previdenziali attraverso un meccanismo rodato e ormai semi-automatico, l’anno successivo, in base a un valore dell’inflazione stabilito da un decreto ministeriale di solito a novembre. È così dai tempi della riforma Dini del 1995. Dal momento che le pensioni sono conteggiate sulla base di un meccanismi di calcolo contributivo e non più retributivo, ovvero sulla base dei contributi versati e non a un livello fissati indipendentemente da essi, ogni intervento in quest’ambito dovrebbe essere ben calibrato. Ci sono buone ragioni per attenersi a scadenze e appuntamenti consolidati: la prima è che se vi si rimane fedeli, si dà un certo grado di prevedibilità all’andamento dei conti dello Stato. Se l’appuntamento con l’indicizzazione è fissato per gennaio, anticiparlo a settembre fa saltare un’agenda ben definita.

È vero che fra cinque mesi si detrarrà quanto riconosciuto ora e che si tratta di una spesa una tantum. Ma apre la porta a iniziative simili in futuro, passando da una scadenza ben definita a una adattabile alle circostanze (e anche ai balletti del consenso). L’operazione dovrebbe costare due miliardi. La rivalutazione dovrebbe basarsi su un aumento dei prezzi al consumo nei primi sei mesi dell’anno stimato al 5,396, che è di più del 4,796 che le parti sociali stanno applicando con il rinnovo del contratto. Gli importi complessivi sono più elevati del taglio del cuneo fiscale previsto soltanto per i redditi inferiori ai 35 mila euro. In più, accrescere la spesa previdenziali significa inevitabilmente accrescere anche il carico contributivo su chi oggi lavora.

Insomma, Silvio Berlusconi ha inaugurato la sua campagna elettorale parlando di aumentare le pensioni minime a 1000 euro, whatever it takes, e Matteo Salvini ha rinfoderato l’abolizione della legge Fornero che a fine anno rientrerà in vigore senza più quota cento.

Ma mentre le promesse elettorali di solito sono promesse da marinaio (e sia il Cavaliere sia i suoi elettori ne sono consapevoli), il governo agisce. È vero che lo fa con un consenso molto vasto, nel Paese e in Parlamento. Proprio per questo, tuttavia, lascia un doppio messaggio pericoloso a chi verrà dopo. Il primo messaggio pericoloso è che, quando la crisi morde, bisogna pensare prima a chi non lavora più e solo dopo a chi lavorala che, beninteso, è una filosofia rispettabilissima e consolidata fra i partiti politici in Italia. È anche una filosofia che è stata fortemente criticata da grandi istituzioni internazionali e opinione pubblica, dal momento che in Italia come sappiamo imposte e contributi sul lavoro sono particolarmente gravosi.

Il secondo messaggio pericoloso è che la giusta preoccupazione di proteggere i cittadini da inflazione e crisi energetica consenta di fare tutto, indipendentemente dallo stato delle finanze pubbliche. I partiti politici non aspettano altro, il loro istinto è quello, e se c’è la benedizione del governo del supertecnico Mario Draghi tanto di guadagnato. Il guaio è che mentre Draghi premier godeva di un prestigio che gli ha consentito di essere, per così dire, il primo scudo antispread, lo stesso non varrà per il suo successore, chiunque sia.

L’inflazione aiuta le finanze pubbliche, fa risparmiare sul servizio del debito e anche sui salari della pubblica amministrazione (finché non verranno adeguati). L’aumento dei prezzi accresce il valore nominale delle imposte indirette. Ma è difficile pensare che tutto ciò sia sufficiente a garantirci piena libertà di spesa, soprattutto in un momento segnato da una così forte incertezza: sia italiana (che cosa hanno davvero in mente i vincitori delle prossime elezioni?) sia internazionale (dall’Ucraina a Taiwan). In più l’Italia non è un casinò e il banco non vince sempre. Pensiamo alla sbandierata imposta sugli extraprofitti (sul fronte della riscossione il governo è intervenuto nuovamente col decreto di giovedì). Il gettito stimato era di circa u miliardi. Sulla base degli acconti versati il 30 giugno, la stima attuale è di poco meno di 1,5. C’entra il fatto che molti operatori non hanno versato il dovuto in attesa dell’esito dei ricorsi. Ma non è improbabile che il gettito si riveli comunque assai inferiore alle attese, aprendo così il problema di come finanziare alcune iniziative che ormai sono state intraprese. Insomma, la prudenza non è (non sarebbe) mai troppa.

Da Corriere della sera – Economia, 8 agosto 2022

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