La società «aperta» pensa anche agli umili (in equilibrio tra rischi e guadagni)

Smith voleva mettere in guardia da chi pensava che l'interesse nazionale si faccia ogni volta che un governo proclama di perseguirlo

5 Giugno 2023

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Adam Smith nasceva trecento anni fa, il 5 giugno del 1723, e mai come oggi il suo pensiero appare una curiosità antiquaria. Stato imprenditore, friendshoring, l’economia viene dopo la geopolitica: queste sono le parole d’ordine dei nostri tempi. Smith ha ancora qualcosa da dirci.

L’autore della «Ricchezza delle nazioni», pubblicata a 53 anni nel 1776, prendeva di mira il «sistema mercantile». Il principio-cardine del mercantilismo è semplice: tutto va bene purché entrino più quattrini nelle tasche del tesoro, ovvero del sovrano. Di qui l’assunto, tutt’oggi popolare, che le esportazioni siano buone e le importazioni cattive. Che un Paese forte deve vendere cose al resto del mondo, e non comprarle.

Il vero valore
Immaginiamo di applicare lo stesso principio a una singola persona. È la ricetta per una vita grama. La nostra esistenza è alleviata, è resa più confortevole, proprio da ciò che noi compriamo, non da quel che vendiamo. Nessuno lavora per il gusto di avere un salario, vogliamo un salario per poter soddisfare, per quanto ci riesce, i nostri gusti.

Smith comprese che ogni discussione sullo scambio internazionale è do: minata dalla «gelosia del commercio», per citare il suo amico David Hume. In molti raccontano l’economia internazionale come fosse Risiko. Per Hume, e poi per Smith, c’è una differenza chiara fra guerra e commercio: la prima è una partita che si gioca solo una volta, e si conclude con un vincitore e un perdente. Il commercio invece perdura nel tempo e instaura rapporti di reciprocità: per qualcuno che vende c’è qualcuno che compra e viceversa.

Lo scambio economico è un gioco a somma positiva, non a somma zero. La grande idea di Smith è che la divisione del lavoro fa crescere la produttività: sia all’interno di una unità produttiva (la famosa fabbrica di spilli) sia nella società nel suo complesso. «La divisione del lavoro è limitata dall’estensione del mercato»: tanti più sono i partecipanti al gioco economico, tanto maggiore è il grado di specializzazione che possono raggiungere e, quindi, gli incrementi di produttività.

A dispetto dei luoghi comuni, Smith scrive pensando alle classi più umili. Aveva compreso anzitempo che la libertà di commercio (a differenza, per esempio, delle norme che rendevano difficile ai più poveri spostarsi e offrire il proprio lavoro dove lo avrebbero pagato di più) sarebbe andato a loro vantaggio. Trent’anni di globalizzazione sono un monumento alla lungimiranza di Smith. Il numero di persone che vivono sotto la soglia della povertà assoluta è sceso dai 2 miliardi del 1990 ai 640 milioni del 2019. Intanto la popolazione mondiale passava da 5,2 a 7 miliardi. Cosa è successo? Abbiamo integrato nel commercio internazionale chi prima ne era escluso.

Ma nel mondo di Smith, dirà qualcuno, si scambiavano manufatti e non componenti e beni intermedi. Adesso è tutto diverso, le filiere di produzione abbracciano più Paesi, questo chiama in causa la sicurezza nazionale, che diamine.

Smith non poteva immaginare la locomotiva a vapore, figurarsi il container. Ma il suo esempio di divisione del lavoro «nella società», e non solo in un’impresa, è l’abito del lavorante a giornata, un vestito non dei più raffinati e che pure per essere realizzato ha bisogno di apporti da Paesi diversi.

A governarli sono le convenienze: i prezzi, che è il modo nel quale riusciamo ad accordarci anche fra persone che non si conoscono. L’operaio della Samsung che assembla il nostro cellulare non lo fa pensando a noi ma al suo salario, noi lo acquistiamo perché ci serve e non perché vogliamo aiutarlo a mettere il pane in tavola.

Com’è possibile che, ieri come oggi, questo gioco di convenienze, da cui viene il benessere di noi tutti, venga occultato dalle accortezze di chi ragiona di commercio come se noi fossimo in guerra con la Germania, o gli Stati Uniti con la Cina? Come è possibile che si continuino a confondere le dinamiche del commercio con quelle della guerra, fingendo che non ci sia differenza fra bombardare un edificio

I rischi attuali
Per Smith erano gli interessi mercantili a intorbidire le acque, per lucrare privilegi. La metafora della mano invisibile è usata in un solo passo della «Ricchezza delle nazioni». Smith la impiega per dire che i detentori di capitale preferiscono investire in attività a loro più prossime, nel loro Paese, avvantaggiando i propri concittadini. Non sono filantropi, lo fanno perché cercano un buon equilibrio fra rischio e remunerazione.

Smith voleva mettere in guardia da chi pensa che l’interesse nazionale si faccia ogni volta che un governo proclama di perseguirlo. Non è così, ammoniva, è un gioco di convenienze che si realizza da solo.

Non serve granché «per condurre uno Stato dalla più infima barbarie al più alto grado di opulenza, se non pace, una tassazione leggera e una ragionevole amministrazione della giustizia». La strada alternativa: protezionismo, guerre commerciali, poi forse guerre non solo commerciali.

Non varrà la pena di fermarsi un momento e rileggere Adam Smith?

Da Corriere della sera – Economia, 5 giugno 2023

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