Accuse pelose, contraddizioni reali e retropensieri milanesi sul caso Pereira

Non c'era bisogno che arrivasse Pereira per sapere che la Scala è un mondo complicato, negli equilibri dei vertici, nelle prassi invalse nella struttura

20 Maggio 2014

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

È stata l’accusa di conflitto di interessi a creare l’affaire Pereira. Senza, sarebbe rimasto una polemica, una delle tante che nascono nel mondo della lirica, e di cui quel mondo vive. Con quell’accusa, una questione manageriale diventa politica, una contestazione al sovrintendente diventa un’accusa al sindaco.

Ora quell’accusa è caduta: la decisione del cda di confermare Pereira, seppure solo fino a tutto il 2015, esclude che nel suo comportamento si configuri il conflitto di interessi. Proprio la concomitanza con gli scandali dell’Expo, che aveva indotto qualche commentatore a fare di ogni erba un fascio (o sfascio), ora lo esclude in modo categorico: è impensabile che una persona come l’avvocato Pisapia abbia voluto coprire anche l’ombra di un sospetto di scorrettezza amministrativa, tanto meno in questo momento. A Rho come al Piermarini, urgenza non giustifica indulgenza: punto.

L’accusa di conflitto di interessi ha usato Pisapia per colpire Pereira. Dopo la decisione del cda, la situazione sí è rovesciata: ora chi continua ad accusare Pereira colpisce Pisapia. Eppure c’è chi continua a infiorare i suoi scritti di maligni ammiccamenti: mastica amaro perché è fallito l’attacco al sovrintendente o quello al sindaco? Non è che questo fosse fin da principio il bersaglio e quello il pretesto? Dopo tutto, non è solo il mondo che ruota intorno alla Scala a essere diviso a Milano, anche in politica ci sono contrapposizioni, tra regione e comune, e nel comune, all’interno della maggioranza consiliare.

Ma se non c’è stato conflitto di interessi, la “punizione” inflitta a Pereira, di terminare il contratto a fine 2015 anziché a fine 2019, appare incongrua. A Pereira è stato contestato di avere usato poteri che non aveva prima del l° settembre: come sanzione per un comportamento non doloso, che non ha recato danno economico, che è improbabile che venga reiterato nei prossimi tre mesi e che fra tre mesi diventerà non contestabile sul piano delle scelte artistiche, la pena non rispetta il principio di proporzionalità.

Infatti non si tratta di una pena per il passato, ma di un ammonimento per il futuro; riguarda non cose fatte ma quelle che si potrebbero fare. Già l’accusa fin dall’inizio sembrava “pelosa”, posto che in Italia, come osserva Bonomi sulla Stampa, la cultura è molto spesso vittima di un altro conflitto, quello del disinteresse; la sanzione equivale all’ammissione che dietro il conflitto presunto ci siano altri conflitti. Non c’era bisogno che arrivasse Pereira per sapere che la Scala è un mondo complicato, negli equilibri dei vertici, nelle prassi invalse nella struttura. Che ci sono questioni di poteri, economici e sindacali, privati e soldi pubblici, di soldi da spendere e soldi da trovare. A Pereira si deve far sapere che, anche quando avrà tutti i poteri di sovrintendente, la via più breve tra due punti può non essere la retta, delega o non delega. E in ogni caso avendo meno tempo davanti, avrà meno tentazione di provarci.

Fiorenzo Tagliabue, che nel cda della Scala rappresenta la regione, ha votato contro. L’aveva detto fin dall’inizio, “‘sto Presepe nun me piace”. Quando voleva un italiano a quel posto avevamo criticato il suo ottuso pregiudizio campanilista: l’abbiamo sopravvalutato, era più semplice.

Da Il Foglio, 20 maggio 2014
Twitter: @FDebenedetti

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