Come ci ricorda Richard Pipes nel suo recente libro pubblicato da IBL, senza tutela della proprietà non c’è libertà
Bisogna dare atto a papa Francesco di avere ancora una volta toccato un nervo scoperto. Nell'omelia tenuta durante la messa domenicale ha infatti ripreso una tesi da lui espressa già in altre occasioni, quella che fa della proprietà privata un "diritto secondario" e derivato e quindi sacrificabile in nome di diritti "superiori".
Facendo riferimento al passo degli Atti degli Apostoli in cui è scritto che fra loro "nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma tutto era comune", Bergoglio ha voluto sottolineare giustamente il fatto che "nessuno di loro era bisognoso". E dico giustamente perché quella di mettere in comune i loro beni fu una scelta compiuta in perfetta libertà, di coscienza e non derivata da una qualche forma di "risentimento" o "invidia sociale".
Ma è proprio sulla libertà, cioè sul perché e per come essa si lega alla proprietà, che sorgono problemi teorici complessi, che il Papa è sembrato non tanto liquidare (un'omelia non è un consesso scientifico) quanto rendere passibili di fraintendimenti o soluzioni facili. E aggiungerei anche pericolose per un liberale che tiene a conto la libertà individuale.
Condividere la proprietà, come facevano gli apostoli, non può essere imposto infatti da un'autorità superiore, fosse essa pure lo Stato, se non nei limiti previsti dalle legge. Ed è difficile sostenere, come ha fatto il pontefice, che tale condivisione "non è comunismo, ma cristianesimo allo stato puro". Ovvero lo è per quelle libere organizzazioni che sono le confraternite o gli ordini monastici che, per svolgere opera cristiana, ritengono opportuno che i loro discepoli compiano consenzienti questa scelta.
Quando si critica Benedetto Croce per avere affermato in un celebre passo di “Etica e politica” che il liberalismo può accettare anche un ordinamento comunistico, si dimentica di citare il seguito: il filosofo napoletano specifica infatti subito dopo, facendo esplicito riferimento al monachesimo, che ciò può avvenire in perfetta libertà come scelta che però deve essere passibile in un momento successivo di essere rivista dai singoli che l'hanno compiuta senza che ne abbiano a subire conseguenze.
Un concetto questo, fra l'altro, sviluppato da un pensatore liberale contemporaneo, Chandran Kukathas, che ha identificato il liberalismo con il diritto di dissociazione piuttosto che di associazione a un gruppo o a una comunità. I valori cristiani della solidarietà e della misericordia (che il Papa celebrava nella giornata di ieri) hanno un valore solo ex post, cioè come scelta che nasce da piena adesione dell'animo, non ex ante, come condizione necessitata da un'autorità superiore o dalla forza dello Stato.
La grande "rivoluzione cristiana' ha rappresentato proprio ciò: il passaggio dalla religione della legge ad una dello spirito. E in questo preciso senso si può dire che il cristianesimo sia il padre dello stesso liberalismo moderno. Esso non esige di obbedire se non nella misura in cui l'obbedienza è scelta liberamente, come ci ricorda Natalino Irti in una dotta riflessione consegnata al suo ultimo libro (“Viaggio tra gli obbedienti”, La nave di Teseo).
Come è noto, chi fra i liberali pose per primo l'idea della proprietà come un "diritto naturale" primario e non secondario fu John Locke (che fra l'altro, per comprensibili seppur non giustificabili motivi di appartenenza anglicana, poneva i cattolici al di fuori delle regole da lui elaborate della tolleranza liberale). Proprietà, libertà e vita erano per il filosofo inglese i diritti fondamentali, intoccabili, che lo Stato di diritto o liberale doveva garantire a prescindere.
Ed è ben strano che nel Novecento la proprietà abbia rappresentato, anche per tanti liberali, una sorta di rimosso teorico, nonostante che il comunismo - che nel "secolo breve" ha trionfato - sia stato definito già da Marx come il regime che sopprime la proprietà privata,
E forse non è un caso che a ricordarcelo sia stato proprio Richard Pipes, il grande storico della Russia, nonché padre del più mediatico Daniel, teorico dei neocon, in un libro importante appena tradotto in italiano dall'Istituto Bruno Leoni e dal titolo inequivocabile: “
Proprietà e libertà”.
Proprietà, vita e libertà sono, a ben vedere, le tre facce di una stessa medaglia, come Locke stesso in qualche modo intuì non nelle sue opere liberali ma in quel capolavoro teoretico che è il “Saggio sull'intelletto umano” (1690). Tutte e tre infatti costituiscono quel quid unico che è l'identità individuale: vivere significa infatti essere proprietari di sé stessi e possedersi, e non può esserci una differenza fra il possesso della propria interiorità (del proprio progetto di vita) e la proprietà dei beni esteriori che si sono guadagnati e che possono considerarsi una estensione di quella stessa interiorità.
Nel frutto del nostro lavoro, c'è molto di noi stessi: e un oggetto, ogni oggetto, non è mai semplicemente tale, bensì un ricettacolo di sensi che l'uomo vi ha depositato. Non a caso, è il Signore stesso a dire ad Adamo: "lavorerai e guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte!". Con ciò nobilitando il lavoro, e il proprio che dal lavoro discende: il mio della proprietà privata.
Da
Il Mattino, 14 aprile 2021