Le tesi e il pensiero di Michael Oakeshott in un volume pubblicato da IBL a cura di Giovanni Giorgini
Michael Oakeshott, uno dei più grandi intellettuali dello scorso secolo, diceva di sé: «sono uno scettico – uno che vorrebbe far meglio, se solo sapesse come». Questa formidabile battuta rappresenta probabilmente la bussola migliore su cui fare affidamento mentre si naviga
Razionalismo in politica e altri saggi (da poco pubblicato per IBL Libri), eccellente compendio del suo pensiero politico e filosofico.
Come chiarisce Giovanni Giorgini nell’ampio e informato saggio che introduce l’opera,
Razionalismo in politica ha contributo a consolidare la reputazione di Oakeshott quale autore sì conservatore, ma di un conservatorismo “atipico”, in quanto costruito non sulla fede in un ordine divino del cosmo o nel diritto naturale (da qui la sua divergenza con Russell Kirk), bensì su uno scetticismo di fondo che informa le scelte di vita (principalmente politiche) dell’individuo.
Nella ricostruzione del filosofo inglese, il divenire è assunto come un evento centrale e ineluttabile dell’esistenza umana: essere conservatori, allora, «non significa meramente essere avversi al cambiamento», ma esibire una precisa «maniera di abituarsi al mutamento», fatta di preferenze per «certi tipi di condotta e certe condizioni dell’esistenza umana» rispetto ad altri (così proprio in “Cosa significa essere conservatori”, uno dei saggi raccolti nell’opera in recensione). In altre parole, come osserva lo stesso Giorgini, la tradizione ha, per Oakeshott, un valore anzitutto euristico: l’individuo apprende – ricevendolo dalla sua famiglia e dalla sua comunità – un habitus culturale, che gli consente di prendere parte a una “conversazione” all’interno di quella specifica società, al contempo abilitandolo a rendersi conto di quali cambiamenti siano necessari, di volta in volta, per adeguare istituzioni e leggi alle circostanze del presente.
Non stupisce, allora, che il modello cui l’autore di
Razionalismo in politica faccia riferimento con più costanza è quello del
common law inglese, quale sistema giuridico che, refrattario a sistematizzazioni complessive o a tentazioni palingenetiche, si è sviluppato lungo i secoli in modo incrementale e paziente.
Se la tradizione è dunque essenzialmente una forza regolatrice, si comprende agevolmente perché il conservatorismo di Oakeshott si sottragga alla classificazione in termini di ideologia, senza che ciò equivalga a risolverlo in un agnosticismo valoriale. D’altronde, se è vero che in una società libera non esiste un’unica visione della vita “buona”, appare nondimeno necessario che una certa visione della vita “buona” sia più diffusa di altre, perché la società libera resti tale. Ecco spiegato l’accento posto sul
rule of law, sulla proprietà privata, sulla dispersione del potere, sulla distribuzione dell’autorità tra passato, presente e futuro, sulla promozione dell’associazionismo volontario in luogo di quello coattivo.
Non è un caso, allora, che proprio attraverso tale prisma si presti a essere interpretata l’esperienza conservatrice di maggior successo dello scorso secolo: il thatcherismo (suggerita, in proposito, la lettura di
The Anatomy of Thatcherism, scritto da Shirley Robin Letwin, che di Oakeshott fu amica e collaboratrice). La prassi – prima ancora che la teoria – politica di Margaret Thatcher, infatti, appare del tutto in linea con la definizione che Oakeshott ha dato di “conservatorismo politico”, quale inclinazione «appropriata a persone che hanno di per sé qualcosa da fare e qualcosa cui pensare, che hanno un talento da mettere in pratica o una fortuna intellettuale da creare, a persone le cui passioni non hanno bisogno di essere infiammate, i cui desideri non hanno bisogno di essere scatenati e i cui sogni di un mondo migliore non hanno bisogno di essere enfatizzati».
Si è già ricordato come quella di Oakeshott sia anzitutto una disposizione “scettica” verso l’attività di governo, che, «come l’aglio in cucina, dovrebbe essere usata con tale discrezione da notare solo la sua mancanza» (così in
La politica moderna tra scetticismo e fede, altra preziosa opera del filosofo inglese). Tuttavia, cadrebbe in errore il lettore che confondesse l’ammonimento a un uso parco del potere come un invito a fare a meno del governo: se la politica della “fede” (che concepisce l’autorità come strumento per raddrizzare il legno storto dell’umanità) conduce all’abolizione stessa della politica quale mediazione fra interessi diversi, la politica dello “scetticismo”, se non prudentemente impiegata, può degenerare in «quietismo politico» (così Giorgini). Pertanto, anche lo scettico – che, come “l’uomo esperto della vita” di Hegel, «non si abbandona all’astratto o-o, ma si attiene al concreto» – deve aspirare alla realizzazione personale, ovverosia alla “felicità”.
Con una precisazione importante quanto allo spazio della politica in questo percorso: al contrario di ciò che predicano gli aedi razionalisti, Oakeshott ci ricorda che il governo non ha il compito di rendere felici i cittadini, bensì di permettere loro di perseguire le proprie originali immagini di felicità. È proprio qui che si colloca la differenza, testuale e concettuale, tra il diritto (liberale)
alla ricerca della felicità e il diritto (non liberale)
alla felicità.
da
La Gazzetta del Mezzogiorno, 23 marzo 2021