Prefazione a "Straborghese"
di Alberto Mingardi


Avendo conosciuto Sergio Ricossa quando aveva già i capelli bianchi, e l’aria in Italia ormai era cambiata e s’era fatta – pur fra mille difficoltà – meno stagnante, tendo a dimenticare che razza di meraviglioso incosciente egli fosse appena una manciata di anni prima. E lo stesso temo capiti al lettore, che prendendo in mano questo saggio ne apprezzerà il gusto della parola cesellata, l’erudizione lieve, l’ironia schietta. Col rischio di dimenticare il fatto storicamente più rilevante. Cioè che scrivere questo libro fu, in quel 1980 in cui venne pubblicato dall’Editoriale Nuova, un gesto folle come tutte le prove d’amore. Per quanto mi riguarda, me ne rendo conto sfogliando la mia copia della prima edizione – recuperata chissà quando su una bancarella, non sono sicuro ma ci scommetterei, in Corso Siccardi a Torino, una specie di impolverato forziere delle meraviglie al cui periodico saccheggio ho contribuito da par mio.

È un libro che ha vissuto, quello che ho in mano. Il precedente proprietario del volume a pagina 49 (pagina 69 di questa edizione) incornicia il titolo del capitolo, “A che serve la borghesia”, con falce e martello. Poco dopo (pagina 57, pagina 77 di questa edizione) la frase «L’umanità è costituita da individui tutti unici e irripetibili» è chiosata da un secco «e la borghesia li annienta». A pagina 75 (pagina 95 di questa edizione) la constatazione che «l’arte di imbrogliare con le parole è antichissima e onorata dall’umanità in generale» è ritorta contro lo stesso autore: «Vero Ricossa?». Poco più in là (pagina 113 della presente edizione), il sommo sdegno. «Vi sono teorie dello sfruttamento che servono solo a sfruttare meglio gl’ignoranti d’economia, gl’ingenui, i ricchi»: la decorazione, questa volta, è una svastica odiosa. Ma più di tutto mi ha colpito una batteria di punti interrogativi, incolonnati a fianco di un’affermazione limpida e ragionevole e letta oggi persino banale: «È irrazionale voler sempre essere razionali» (capitolo XIV, pagina 125 e ora a pagina 142).

Chissà chi era questo lettore armato di matita. Uno studente insospettito da un votaccio? Per Montanelli, i brigatisti erano «studenti bocciati, avvocaticchi senza clienti, professorucoli delusi nelle loro ambizioni».1 Fosse chi fosse, apparteneva a una minoranza avvertita, intollerante e perversamente curiosa al punto da passare al setaccio libri a circolazione quasi clandestina, per monitorare quel che dicevano gli avversari ideologici. I pochi ancora in circolazione.

Nel 1977, il fondatore de Il Giornale (di cui l’Editoriale Nuova fu una sfortunata filiazione) si prese quattro pallottole nelle gambe. Più sobriamente (più borghesemente?), sui muri della facoltà dove insegnava l’autore di questo libro stava scritto: «Al professor Ricossa, noi scaverem la fossa». Non passarono dalle parole ai fatti,2 per fortuna. Per Ricossa, quelli erano anni in cui era «impegnato a dimettersi».3 Costretto ad abbandonare prima l’Unione Industriale di Torino (con la quale aveva collaborato da subito dopo la laurea – dal 1950 – grazie all’allora direttore Augusto Bargoni) e poi La Stampa (su cui aveva scritto, come si conveniva a una figura eminente di quella città) – per il solo torto di essere un eterodosso.4 Nella versione pubblicata del suo diario, il nostro autore faceva così un «consuntivo degli anni Settanta»:

Un decennio para-rivoluzionario, dai pericoli del quale i governi italiani si sono difesi promettendo tutto a chi chiedeva tutto, e perciò aumentando la spesa pubblica all’impazzata. La forte inflazione ha comportato: una salita automatica del gettito tributario attraverso il cosiddetto fiscal drag, e una discesa sotto lo zero del tasso reale di interesse. Poiché l’inflazione ha superato il tasso nominale di interesse, il Tesoro ha potuto indebitarsi gratis, e lo ha fatto con voracità. I risparmiatori sono stati posti di fronte all’alternativa: o perdere comperando i buoni del Tesoro, o perdere molto di più comperando obbligazioni e azioni private. Tutti gli investimenti alternativi ai buoni del Tesoro sono stati penalizzati. L’invio di risparmio all’esterno, in cerca di scampo, ha subito draconiane proibizioni. Le imprese produttive, incapaci di ottenere i mezzi dagli azionisti, si sono esse pure indebitate fino al collo (ma talora ottenendo denaro politicamente “agevolato”, sempre pro bono pacis. Tutto questo non può più durare a lungo. Neanche la pena di morte impedirebbe agli italiani di esportare capitali in paesi meno a rischio del nostro.5

Il 1980 non si apre sotto una stella diversa. È l’anno in cui i terroristi di Prima Linea ammazzano il dirigente dell’ICMESA Paolo Giletti, i brigatisti uccidono il vicepresidente del CSM Vittorio Bachelet e poi il giornalista del Corriere Walter Tobagi. È l’anno in cui Carlo Donat Cattin deve lasciare la carica di vicesegretario della DC, accusato da Roberto Sandalo (Prima Linea) di aver favorito la fuga all’estero del figlio terrorista, Marco. È l’anno della strage di Bologna e della tragedia di Ustica. È l’anno in cui si compie il parto travagliato del Servizio Sanitario Nazionale.

È vero, nel resto del mondo si sta alzando un vento nuovo. La socialdemocrazia all’Ovest e il socialismo all’Est entrano in crisi, affondate l’una e l’altra dalla folle ambizione di progettare, del tutto o un po’ meno, l’economia. Ad agosto a Danzica nasce Solidarnosc, a novembre Ronald Reagan sarà eletto Presidente degli Stati Uniti, nello sbigottimento degli europei. In Italia, l’unico spiffero è la marcia dei quarantamila a Torino. Altrove è in crisi il socialismo nelle sue diverse varianti, da noi «si promette tutto a chi chiedeva tutto», si ambisce a includere nel gioco democratico chi si porrebbe fuori da esso. Non sono i “rivoluzionari” a crescere e farsi riformisti: è il sistema che va loro incontro. Forse non è la “rivoluzione passiva”, ma ci andiamo vicino.

È questo il contesto in cui è assai più facile trovare chi sia disposto a ucciderne uno, di borghese, che chi «sia disposto a definirli con precisione».6 Come stupirsi, allora, dell’odio ideologico di quel lettore che, dopo aver strapazzato Straborghese, l’ha abbandonato così che, vent’anni dopo, potesse finire nelle mie mani?

Le pagine che seguono non sono solo uno strepitoso concentrato di intelligenza: sono anche un compendio del “ricossismo”. Nella parabola scientifica e umana di Ricossa, Straborghese è un libro-cerniera. Di lì a un anno, Ricossa pubblicherà la sua Teoria unificata del valore economico:7 un breve saggio incredibilmente complesso, frutto di un estenuante confronto a distanza col torinese di Cambridge Piero Sraffa. Il lavoro passa sotto silenzio, non è più stato ristampato, oggi appare un oggetto di modernariato. Quante energie, quanta intelligenza profusa generosamente per offrire un antidoto intellettuale a una malattia debellatasi da sé. Nella versione pubblicata del suo diario, Ricossa presumibilmente espunge ogni traccia di questa lunga attività di demolizione, limitandosi ad annotare a più riprese che la fama di Sraffa è legata all’essere “paracomunista” e allo stare a Cambridge.8 Si intravede una delusione. Ricossa s’era impegnato per evitare l’errore di Hayek, che non volle o non seppe attaccare frontalmente il keynesismo, risolvendosi a estirparne invece le metastasi. Nell’ossessione di Ricossa per Sraffa, c’è un senso di missione. Frustrato: nel momento in cui la missione è compiuta, l’avversario è scomparso dalla scena.

Alla battaglia contro Sraffa, se ne sostituisce un’altra. Quella contro le proprie passate illusioni.9 Prima di incrociare Hayek, conoscere la Mont Pèlerin Society, e diventare di fatto l’unico economista “austriaco” che per quarant’anni sia entrato in un’università italiana col “prof” davanti al cognome, Ricossa era stato fra quanti avevano introdotto in Italia la programmazione lineare. Il che non è sorprendente, per un economista neoclassico, devoto sì al culto di Einaudi, ma saldamente inserito nel paradigma walrasiano.

Con Straborghese, Ricossa comincia a cambiare abito, assecondando la sua vocazione più vera. Che è, in senso proprio, letteraria.10 Questo libro, e più ancora il capolavoro di Ricossa, La fine dell’economia,11 sono saggi come non se ne scrivono più. Scevri di ogni accademismo, sono essays fuori dal tempo.12 Il Keynes che Ricossa demolisce è quello della Teoria generale, ma lui stesso è un intellettuale del tipo del Keynes de Le conseguenze economiche della pace. Un liberale e per questo un “umanista”, nel senso descritto poi da Pascal Salin,13 prosatore raffinato, critico acerrimo dei formalismi della sua scienza (fino al dissacrante Maledetti economisti14) non perché li ignori, ma perché non servono ad assolverne la funzione eterna, a ragionare sulle «cause della ricchezza delle nazioni». Con forza, «prende le distanze da coloro che si proclamano economisti, ma che in realtà propongono una visione costruttivista del nostro futuro e che, nascosti dietro formule, regole ottimizzanti e ipotetiche funzioni del benessere sociale, cercano di imporre agli individui una visione del mondo», come ha spiegato Enrico Colombatto.15 Se la parola non avesse assunto i connotati che sappiamo, andrebbe detto che Ricossa è un moralista. Come ha notato Paolo Del Debbio,16 la preferenza per la libertà in Ricossa esce dall’alveo economicistico dell’“efficienza” per diventare, a tutto tondo, un’opzione di principio, una scelta morale.

L’autore per certi versi più affine a Ricossa, che pure lo cita di rado, è forse Benjamin Constant. Non solo e non tanto perché sono, entrambi, grandi scrittori. Ma perché gli argomenti che si rincorrono nelle loro pagine si assomigliano.

Per capirne il motivo, vale la pena preannunciare al lettore chi è il “borghese” di Ricossa. È in buona sostanza l’eroe di una storia. La storia di uno sviluppo economico tumultuoso e imprevedibile (imprevedibile perché mai visto prima). Il borghese ricossiano è il protagonista di una rivoluzione infinita e permanente, destinata a ripetersi finché sopravvivrà qualcosa del sistema capitalistico.

A grandi pennellate, l’affresco che emerge da Straborghese, e più ancora da La fine dell’economia, è pressappoco questo. C’è una cesura nella storia dell’umanità, legata alla rivoluzione industriale. Ricossa è ben consapevole che si trattò di un percorso lungo e non di un “fulmine a ciel sereno”, che la “rivoluzione permanente” prende avvio nelle città medioevali, quando lo sfilacciamento dei pubblici poteri rese possibile quel “miracolo europeo” che avrebbe portato alla macchina a vapore. Il capitalismo «è piuttosto un’evoluzione storica dell’economia, che comincia verso l’anno Mille o poco dopo».17

Senza affannarsi a indicare il giorno e l’ora in cui è cambiato il mondo, è facile indicare quale è il momento, in senso lato, in cui tutto ha cominciato a non poter essere più come prima. Per Rosenberg e Birdzell, a un certo punto nella storia è «il commercio su vasta scala» a soppiantare «l’impresa familiare, al cui interno esisteva una rete di rapporti leali fondati sulla parentela. Ciò di cui c’era bisogno era il concetto di impresa come entità distinta dal proprietario e dalla famiglia».18 A questa insorgenza corrisponde quella, speculare, di un «nuovo sistema di valori», in cui l’individuo è affrancato dal rigido schema gerarchico e militarizzato che aveva caratterizzato, nel male come nel bene, la società medioevale. Questo sistema di valori corrisponde a ciò che Deirdre McCloskey19 ha descritto, sottraendo lei pure la parola borghesia alla desuetudine, come “virtù borghesi”.

Sono queste virtù la bussola per abitare il mercato come spazio morale. È diverso stare assieme come sudditi e capi, come servi e padroni, oppure farlo da produttori e consumatori, persone libere e dipendenti l’una dall’altra solo per libera scelta. Non serve più l’areté del guerriero, ma è essenziale che i mercanti possano fidarsi della parola data. L’intraprendenza è virtuosa nella misura in cui porta non all’asservimento di molti, attraverso la conquista, ma alla soddisfazione di molti, attraverso lo scambio. La questione di come cultura e istituzioni si influenzino a vicenda è complessa e annosa,20 ma gli studiosi stanno riflettendo con grande cura sull’emergere delle “virtù borghesi”, il cui successo affiora nell’epoca della rivoluzione industriale. Si dedica una crescente attenzione all’«emergenza di quell’insieme di codici di comportamento che rese possibile superare il free riding e il comportamento opportunistico».21 Ricorda Joel Mokyr che «il grande giurista William Blackstone si riferiva all’Inghilterra come a un “popolo educato e commerciale”. L’educazione era tipicamente associata con comportamenti rispettosi del diritto, e si intuiva che il successo commerciale dipendesse in larga misura dall’educazione».22

Sono queste “virtù borghesi” che Ricossa utilizza per impostare il suo “borghese”, che assomma tratti riconoscibili in tanti “borghesi” della storia, abbiano avuto o meno successo. La sua morale «si fonda sulla responsabilità individuale, sulla colpa individuale, e sulla punizione individuale». Per questo «è disposto a imputare a sé stesso il proprio eventuale fallimento, senza cercare scuse», «sente poco l’invidia perché riconosce a tutti il suo stesso obiettivo di eccellere» e «non vuole ricevere senza dare, non vuole dare senza ricevere. Egli scambia».23

Soprattutto, il borghese è l’uomo dell’oggi. Non è un laudator temporis actii, non rimpiange le mezze stagioni, una società ferma in cui il signore ha casa alla distanza di quattro filari di vigne dal contado, destinato a morire dov’era vissuto suo padre e dando ordini ai figli dei mezzadri di papà. E non è neppure il millenarista che profetizza la fine del tempo della fatica, il superamento della scarsità del capitale, l’ozio come ultimo stadio dello sviluppo perché «se guardiamo al futuro l’economia non si presenta come un problema permanente della nostra specie».24 Il superamento keynesiano del “problema economico” (tema sottotraccia di questo libro, e filo rosso de La fine dell’economia) è il superamento della borghesia, implica il suo funerale come classe, perché in una società senza scarsità lo stesso problema di come ordinare i valori, di come soddisfare i bisogni, perde qualsiasi valenza.

Questo vagheggiamento della fine della storia economica è sommamente antiborghese. Il borghese ama la sua fatica e volentieri ci convive. Ma non è solo questione di fatica. È soprattutto questione di incertezza. Socialismo e conservatorismo “aristocratico” (quello che in inglese si direbbe “Toryism”) cercano riparo dall’incertezza: il conservatorismo nel vagheggiamento di una società vetero-statica, inamovibile da norme, schemi di comportamento, posizioni sociali che sono quelli del passato e debbono essere quelli del futuro, il socialismo nella promessa di una società neo-statica, in cui prendendo ciascuno secondo i suoi bisogni e dando ciascuno secondo le sue possibilità scomparirebbe ogni simulacro di mutamento sociale. Entrambi mirano a esorcizzare l’incertezza. Il “borghese” ricossiano vuole viverla: «Ama il rischio calcolato, e più raramente quello spericolato».25 «Si narra che, avendo l’imperatrice Teodora ceduto alla tentazione di finanziare un carico marittimo, l’imperatore Teofilo fece bruciare la nave perché l’operazione era indegna della sua sposa. Il borghese, invece, se è il caso diventa imperatore finanziando la marina mercantile, e inventa le assicurazioni contro il rischio che i mariti brucino le navi alle mogli».26 «L’imprenditore punta su ciò che crede di vedere e gli altri non vedono ancora. Scommette sul futuro».27

Il capitalista indossa i panni di colui che si assume il rischio del cambiamento e dell’anticipazione dei valori, nonché il profitto o la perdita conseguente. Del pari, è capitale qualunque valore anticipato, se consideriamo l’accezione più estesa del concetto, comprensiva dell’idea di capitale quale strumento prodotto in via anticipata per ottenere altri prodotti. Un forno da pane va costruito prima di ottenere il pane, perciò è capitale e capitalista è il fornaio proprietario. Il quale fornaio mira a ricavare dal pane più di quanto a lui siano costati il forno e quant’altro occorre per la panificazione. Ma mentre qui è facile prevedere con pochi errori il ricavo del pane che il forno consentirà di produrre, il rischio dell’anticipazione aumenta se il capitalista tenta vie nuove, inusitate, senza precedenti, o più lunghe, più perigliose, meno controllabili.28

Questa definizione è almeno in parte frutto dell’impegno di storico dell’economia di Ricossa, portato avanti in lavori come Storia della fatica. Quando dove e come si viveva,29 e poi culminato in una antologia curata assieme a Piero Melograni, Le rivoluzioni del benessere.30 Il motivo che muove questo interesse storiografico è rintracciabile in una convinzione condivisa con Hayek. Che, cioè, il mastice di un’opinione pubblica a tratti ferocemente avversa al mercato sia da ricondurre a «leggende che inizialmente sono messe in circolazione da scrittori di storia economica», e segnatamente al “mito supremo” che «la condizione delle classi lavoratrici sia peggiorata in conseguenza del sorgere del capitalismo».31 Insomma, «invece di parlare di capitalismo quando si discute degli enormi progressi del tenore di vita delle masse, l’agitazione antiliberale preferisce parlare di capitalismo soltanto quando cita uno qualsiasi dei fenomeni che sono stati possibili proprio perché si è rinunciato al liberalismo. Che il capitalismo abbia messo a disposizione delle grandi masse, per fare un esempio, un mezzo di consumo e di nutrimento gradevole come lo zucchero – questo non viene mai detto».32

Per Ricossa, questo non è un fenomeno incomprensibile. Non conta solo la forza dell’egemonia, che forse vivendo nel paese di Antonio Gramsci riuscì ad avvertire ancora più forte di quanto non capitasse a Mises o a Hayek. Ma contano dinamiche insite nella stessa natura della nostra società. Noi «siamo figli di una civiltà industriale che non conosciamo; viviamo in mezzo a macchine di cui ignoriamo il modo di funzionare, e lavoriamo in una economia che obbedisce a regole sulle quali sappiamo poco o nulla». Tutti usiamo il televisore, ma nessuno ricorda il nome del suo inventore. Tutti viviamo nel mercato, ma più che comprenderlo lo subiamo. «La nostra civiltà industriale non è nostra affatto, non sentiamo che ci appartenga; la giudichiamo male, ma siamo incapaci di confrontarla sensatamente con altre diverse; il suo destino, che è vulnerabile, ci lascia indifferenti».33

Un libriccino come questo nasce proprio dal bisogno di fare comprendere meglio, perché non lasci più indifferenti e perché non desti più odio ideologico, la società di mercato in cui viviamo. E, allo scopo, l’autore ha tratto dal cilindro un “eroe”, il borghese, facendone un concentrato di quelle virtù imprenditoriali da cui una società che voglia avere successo nella produzione di ricchezza non può prescindere.

Il borghese di Ricossa allora non è quello di Sombart,34 per il quale accanto allo spirito imprenditoriale che ambisce a guadagnare e conquistare emerge uno spirito borghese che vuole ordinare e conservare, insomma: mietere i frutti del capitalismo a proprio favore. Il borghese ricossiano è un puro imprenditore, che lavori per sé (come sarebbe, suggerisce il nostro autore, nella sua più intima natura) oppure per altri. E con il suo arrivo sulla scena della storia noi vediamo emergere tutte quelle caratteristiche che abbiamo imparato, col tempo, ad associare a una certa idea di modernità. A cominciare dalla capacità di, e dalla vocazione a, calcolare: pietra angolare di un’impresa che si districhi fra entrate e uscite, per cavarne profitti.

Ma la tendenza alla razionalizzazione («il borghese crede di essere razionale anche quando non lo è»), nel borghese ricossiano è temperata dall’imperativo del buon senso. È irrazionale voler essere sempre razionali, con buona pace del precedente proprietario del mio Straborghese. Soprattutto, atteggiamenti e strategie di comportamento non possono necessariamente essere trasposte da una parte della vita all’altra. Il borghese nell’impresa è un risk taker, che non vuol necessariamente dire un avventuriero ma può anche volerlo dire, e non c’è scandalo finché rischia del suo, fino all’ultimo bottone della camicia, ma in politica è un prudente. Teme e fugge gli avventurieri politici, ha orrore delle facili promesse, avversa le rivoluzioni proprio lui che nel quotidiano degli affari è un rivoluzionario.

Al borghese ricossiano mal s’adattano i “grandi salti in avanti” – tollera al massimo il piecemeal social engineering di cui parlava Popper, le riforme a spizzichi, perché c’è un dovere di comprensione nei confronti della realtà per come spontaneamente si è andata determinando che deve precedere qualsiasi impulso di agire sulle norme sociali vigenti. Certo, il borghese crede nella libertà: «Scopo del borghese è fare del mondo intero, per dirla ancora con Voltaire, una Atene brillante, non una triste Sparta e tanto meno una Sodoma infernale».35

Regolare, metodico, determinato nel lavoro, ambizioso: ma il borghese è anche homo ludens per Ricossa, che ne dipinge un ritratto per nulla grigio, sia che si viva “borghesemente in ricchezza”, sia che si viva “borghesemente in povertà” (esperienza che aveva conosciuto sulla propria pelle, negli anni giovanili). Nell’età vittoriana – era simbolo delle “virtù borghesi” – del resto, un grande best-seller si intitolava Self Help, “aiutati che il ciel t’aiuta”.36

L’homo ludens ricossiano è distante mille miglia dall’iconografia della borghesia impiegatizia, dai bancari che si infilano al lavoro tutti con la cravatta allacciata allo stesso modo e corazzati con lo stesso abito grigio. Per Ricossa, la borghesia non è classe sociale che possa vestire una “uniforme” (per “unirsi”, al suo interno) o una “divisa” (per distinguersi dagli altri). Al contrario, il borghese ricco è esortato ad andare in direzione delle «eccentricità dell’individuo che spende liberamente il suo senza dover rendere conto a nessuno: non agli invidiosi, non ai conformisti, non ai filistei, non agli innumerevoli che pretenderebbero di vivere alle sue spalle». Il borghese che può «dia ali alla fantasia, perché sfugga a tutte le burocrazia del mondo».37

Il borghese sia individuo e per questo unico, fino in fondo, nelle proprie scelte. È il solo a poterlo fare. Perché, prima di lui, vigono le ragioni di casta. E, dopo di lui, c’è l’egualitarismo estremo della società senza classi. «L’unica virtù richiesta al singolo, nel socialismo perfettista, è l’ubbidienza ai comandi dell’autorità superiore, alla cui “supervisione” non sfuggirebbe ciò che invece sfugge all’individuo privato. Perciò l’individuo non conta più, nella società perfetta, egli è perfettamente intercambiabile con qualunque altro individuo: è uno, nessuno, centomila. La stessa divisione del lavoro è osteggiata, perché sparisca insieme all’economia. Solo il tutto è perfetto, non la parte».38

Al contrario, per Ricossa la libertà è differenza: esige rispetto per ogni e qualsiasi differenza. Per questo motivo, egli si produce in un corroborante inno alle eccentricità, grandi e piccole, in qualsiasi campo della vita associata.

È un eccentrico l’uomo di grande immaginazione inventiva nel campo delle idee, del lavoro e del costume. Oggi occorrono eccentrici anche per concepire nuove strategie politiche nella promozione dell’individualismo e del liberismo. Ma ringraziamo pure l’eccentrico ricco che, non potendo darci di più, ci dà la bizzarria fine e divertente, e un modo di vivere spiritoso, introduce la varietà nel quotidiano ed educa con l’esempio ai piccoli piaceri del fare garbatamente l’originale. Insomma, va bene qualunque eccentricità che si contrapponga alla mania collettivistica di metterci tutti in fila, tutti al passo, tutti pronti a “credere, obbedire, combattere”.39

Sono argomenti che forse riuscirono ostici al primo proprietario della mia vecchia copia di Straborghese, e con lui a molti: che magari trovarono incongruente e problematica la giustapposizione della libertà di differire (apparentemente, a tutti gradita) con quella di intraprendere (un po’ meno).

Siamo sempre a Constant (non a caso, il test «per stabilire chi non è borghese», Ricossa lo cuce addosso a Napoleone). Nell’era della grande società, dell’ordine esteso, la libertà non è più lealtà nei confronti del piccolo gruppo ma è «il diritto di essere sottoposti soltanto alla legge, il diritto di non essere arrestati, detenuti, condannati a morte, maltrattati in alcuna maniera, per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui. È il diritto di esprimere il proprio pensiero, scegliere la propria occupazione ed esercitarla; il diritto di disporre dei propri beni e di abusarne addirittura; il diritto di andare e venire senza bisogno di ottenere il permesso, e senza dover rendere conto dei propri motivi o dei propri affari».40

Ma è la società commerciale a ispirare «agli uomini un vivo amore per l’indipendenza individuale. Il commercio provvede ai loro bisogni, soddisfa i loro desideri, e questo senza l’intervento dell’autorità».41 Per usare il lessico più freddo di un contemporaneo, «lo scambio spezza le iniziali animosità fra estranei mentre simultaneamente eleva la fiducia [fra persone]».42 O per tornare a Ricossa, la libertà individuale riposa proprio sul motivo del profitto. È il fatto che il libraio “guadagni” che fa sì che venda indifferentemente «L’histoire d’O o gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, il Capitale di Marx o la Società aperta di Popper. [...] Tolto il profitto, ci deve essere una autorità politica, che stabilisce quel che io posso leggere e qual che non devo. Così accade dove il mercato è proibito».43 È sulla libertà borghese, la libertà economica, che riposano tutte le altre.

Vale la pena ricordare che si tratta di una prospettiva da sempre in Italia serenamente minoritaria («uno dei migliori argomenti a vantaggio del liberismo è che attualmente nessun partito italiano [...] sta sostenendo il liberismo»44). E che la borghesia per cui Ricossa scrisse questo inno d’amore, dalle nostre parti, è da riserva indiana.

Il “gran borghese” è, nella politica italiana, Bruno Visentini, progettista di una riforma fiscale caratterizzata dalla forte progressività e fabbro instancabile di strategie protettive per un capitalismo privato da sottrarsi alla concorrenza molesta dei parvenu. La medesima occupazione impegnò a lungo figure diverse come Guido Carli o Enrico Cuccia, borghesi che avevano cara l’effige di Walther Rathenau, che non a caso Ricossa detesta.45 Erano numi tutelari, l’uno e l’altro, dell’establishment economico italiano: un establishment asserragliato a difesa di posizioni di rendita, insofferente contro i “barbari alle porte”, qualunque fosse il cognome che portavano, fiero di esibire al tempo atteggiamenti aristocratici e simpatie socialiste. Il borghese ricossiano «guarda sempre l’orologio», non lo allaccia sul polsino. Se il borghese è «essenzialmente chi vuol farsi da sé»,46 nella borghesia italiana che pensava se stessa e che veniva ritratta dai giornali come tale, i borghesi sono stati a lungo ombre silenziose.

Le ragioni sono antiche e note, e non è il caso di rivangarle in questa pagina. Tanto vale cavarsela ricordando quanto scrive Piero Gobetti, in una pagina straordinaria de La rivoluzione liberale,

[...] per fare gli Italiani abbiamo dovuto farli impiegati, e abbiamo abolito il brigantaggio soltanto trasportandolo a Roma. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti. Nel pensiero di Turati e di Miglioli l’Italia fu la nazione proletaria: il popolo poi doveva essere educato al parassitismo. Le classi borghesi mancano di una coscienza capitalistica e liberistica, e cercano di difendersi, di non lasciarsi sopraffare partecipando esse pure all’accordo e facendosi pagare in dazi doganali e sussidi ciò che devono elargire in imposte.47

In un’Italia in cui il grande capitalismo nasce (con la guerra) e prospera (con l’economia di guerra in tempo di pace, cioè col proliferare dell’interventismo) avvinghiato alle mammelle dello Stato, in cui l’establishment costruisce sé stesso come il guardiano di un certo equilibrio fra Stato e mercato (altro che lo «Stato severamente minimo»48), Ricossa è stato autenticamente eccentrico. Tocca a un figlio del popolo borghese d’arrivo e non di partenza, a un torinese sgradito alla Real Casa, a un economista disincantato della sua stessa scienza, insegnarci ad amare una borghesia immaginaria ma forse proprio per questo più autentica, più utile, più vera di quella toccataci in sorte in questo paese.

Per questo, Ricossa non è solo un autore che ci è caro, un classico nostro. Sergio Ricossa è qualcosa di più. Malgré soi, è il padre oggi affettuosamente silente, lontano ma indimenticato di un manipolo di incoscienti. Gente che, «con fede in sé e poco altro», coltiva la dissennata ambizione di “liberare” quelle coscienze prima occupate dall’egemonia e poi razziate dal cinismo della delusione degli ultimi trent’anni di vita italiana. Non è solo un maestro: è il capostipite. Di una stirpe di eccentrici.

In occasione di un convegno del Cidas di Torino, Ricossa ebbe modo di invitare chi lo ascoltava a intraprendere un’opera di “educazione popolare”. «Dobbiamo insegnare che lo Stato è il principale nemico della società civile, della morale, della libertà, dell’economia e del benessere».49 Se l’ostacolo maggiore alla sopravvivenza della società libera è dato dai pregiudizi seminati dai suoi avversari, vale la pena ricordare che «solo il pensiero può combattere il pensiero: la ragione soltanto può correggere il ragionamento». Bisogna «combattere a mezzo di giusti ragionamenti quelli sbagliati».50

Sempre in occasione di quel convegno, Ricossa disse che non gli pareva di avere mai avuto un grande “spirito missionario”, necessario per quest’opera di “proselitismo” a favore della libertà. La lunga e straordinaria opera di divulgatore dell’economia, di cui Straborghese rappresenta un esempio deliziosamente efficace, gli dà, per una volta, torto.

    1. Citato in Sergio Ricossa, Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di malaeconomia, Milano, Rizzoli, 1995, p. 145.
    2. «Invece spaccano il naso a uno dei miei figli. Non ci si può fidare delle promesse, neanche di quelle dei rossi». Sergio Ricossa, Come si manda in rovina un Paese, p. 137.
    3. Sergio Ricossa, Da liberale a libertario. Cronache di una conversione, Treviglio, Leonardo Facco Editore, 1999, p. 89.
    4. Il casus belli fu la partecipazione di Ricossa al primo convegno “per la difesa della cultura” del Cidas di Torino. Annota: «Ronchey, direttore, si dimette da La Stampa. ha resistito poco più di me. Il 1973 è l’ecatombe del giornalismo liberale. Il Messaggero dei Perrone non accetta Luigi Barzini come nuovo direttore. Piero Ottone conquista, al Corriere, la poltrona di Spadolini, ma perde Montanelli, dimissionario pure lui. Anche Libero Lenti esce dal Corriere e Ferdinando Di Fenizio da La Stampa». Sergio Ricossa, Come si manda in rovina un Paese, p. 106.
    5. Sergio Ricossa, Come si manda in rovina un Paese, p. 156.
    6. Infra.
    7. Sergio Ricossa, Teoria unificata del valore economico, Torino, Giappichelli, 1981.
    8. Sergio Ricossa, Come si manda in rovina un Paese, per esempio p. 20 e p. 77.
    9. Per alcune note autobiografiche, si veda Enrico Colombatto, Raimondo Cubeddu, “Economia: scienza inesistente? Conversazione autobiografica con Sergio Ricossa”, Il pensiero economico italiano, 9, n. 1, 2001.
    10. Anche Tullio De Mauro ha ravvisato nelle pagine ricossiane una forma di “alta letteratura”. Id., “Postfazione” a Rossella Bocciarelli – Pierluigi Coccia (a cura di), Scrittori italiani di economia, Bari, Laterza, 1994, p. 421.
    11. Sergio Ricossa, La fine dell’economia, Soveria Mannelli-Treviglio, Rubbettino-Leonardo Facco Editore, 2005 (1986).
    12. Ebbe a scrivere Indro Montanelli: «Quella da cui proviene Ricossa è, senza possibilità di equivoco, la famiglia dei Philosophes – da non confondere coi filosofi – francesi, padri e figli dell’Enciclopedia, dei quali egli ha tutta la grazia e la perfidia. Nato nelle strettoie della Monarchia assoluta, Ricossa sarebbe stato senza dubbio uno degli espugnatori della Bastiglia per poi diventare reazionario sotto il capestro dei Giacobini. Ritrovo in lui del Montaigne, del Voltaire, del Renard». Id., “Introduzione” a Sergio Ricossa, Scrivi che ti passa, Torino, Fogola, 1991. A sua volta, Lorenzo Infantino ha notato che «la parentela a cui più direttamente rinviano le coordinate culturali di Ricossa è [...] quella con Tocqueville, nei cui Ricordi c’è una finissima ironia». Id., “Prefazione” a Sergio Ricossa, Maledetti economisti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010 (1997).
    13. Si veda Pascal Salin, Liberalismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 (2000).
    14. Ora Sergio Ricossa, Maledetti economisti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010 (1997).
    15. Enrico Colombatto, “Prefazione” a Sergio Ricossa, La fine dell’economia, p. 7.
    16. Paolo Del Debbio, “Introduzione” a Sergio Ricossa, Vivere è scegliere. Scritti di libertà, Novara, Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2005.
    17. Sergio Ricossa, Passato e futuro del capitalismo, Bari, Laterza, 1995, p. 5.
    18. Nathan Rosenberg – Luther E. Birdzell, Come l’Occidente è diventato ricco, Bologna, il Mulino, 1988 (1986) p. 148.
    19. Deirdre McCloskey, The Vices of the Economists. The Virtues of the Bourgeoisie, Amsterdam, University of Amsterdam Press, 1997 e poi Deirdre McCloskey, The Bourgeois Virtues. Ethics for an Age of Commerce, Chicago, University of Chicago Press, 2006.
    20. Per una lettura illuminante di questa e altre questioni, si veda Angelo Panebianco, L’automa e lo spirito. Azioni individuali, istituzioni, imprese collettive, Bologna, il Mulino, 2009.
    21. Joel Mokyr, “Entrepreneurship and the Industrial Revolution in Britain”, in David S. Landes – Joel Mokyr – William J. Baumol, The Invention of Enterprise. Entrepreneurship from Ancient Mesopotamia to Modern Times, Princeton, Princeton University Press, 2010, p. 191.
    22. Joel Mokyr, “Entrepreneurship and the Industrial Revolution in Britain”, p. 190.
    23. Infra.
    24. John Maynard Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, Milano, Adelphi, 2009 (1928), p. 21.
    25. Infra.
    26. Infra.
    27. Sergio Ricossa, Impariamo l’economia, Milano, Rizzoli, 1994, p. 124.
    28. Sergio Ricossa, Dizionario di economia, Torino, Utet, 1982, p. 656.
    29. Sergio Ricossa, Storia della fatica. Quando, dove e come si viveva, Roma, Armando, 1974.
    30. Piero Melograni – Sergio Ricossa (a cura di), Le rivoluzioni del benessere, Bari, Laterza, 1988.
    31. Friedrich A. von Hayek, “Introduzione” a Il capitalismo e gli storici, Roma, Bonacci, 1991 (1954), pp. 20-21.
    32. Ludwig von Mises, Liberalismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1997 (1927), pp. 38-39.
    33. Sergio Ricossa, Storia della fatica, pp. 5-6.
    34. A titolo esemplificativo, si veda Werner Sombart, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Milano, Guanda, 1994 (1913).
    35. Infra.
    36. Samuel Smiles, Chi si aiuta Dio l’aiuta, ovvero Storia degli uomini che dal nulla seppero innalzarsi ai più alti gradi in tutti i rami della umana attività, Milano, Editori della biblioteca utile, 1865 (1859).
    37. Infra.
    38. Sergio Ricossa, “Etica economica e mercato”, in Sergio Ricossa – Enrico Di Robilant (a cura di), Libertà giustizia e persona nella società tecnologica, Milano, Giuffré, 1985, p. 194.
    39. Infra.
    40. Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Macerata, Liberilibri, 2001 (1819), p. 5.
    41. Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, p. 10.
    42. Michael Shermer, The Mind of the Market. Compassionate Apes, Competitive Humans and Other Tales From Evolutionary Economics, New York, Times Books, 2008, p. 256.
    43. Infra.
    44. Infra.
    45. Infra.
    46. Infra.
    47. Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Torino, Einaudi, 2008 (1924), p. 147.
    48. Infra.
    49. Sergio Ricossa, “Economia e Stato massimo”, in Cidas (a cura di), Contro lo Stato massimo, Macerata, Liberilibri, 1998, p. 33.
    50. Benjamin Constant, “Nota sulla sovranità del popolo e i suoi limiti”, ora in Id., La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, pp. 45, 47.