Prefazione a “La fine dell’economia”
di Enrico Colombatto
La riedizione del libro di Sergio Ricossa sull’economia come scienza dell’imperfezione è quanto mai opportuna, per l’economista, per chi è attratto dall’econometria e dall’ingegneria sociale, per gli studenti e per tutti coloro che hanno sempre incontrato difficoltà nell’avvicinarsi a questa disciplina. Si tratta di un’opera che senza troppi preamboli obbliga il lettore a confrontarsi con le questioni fondamentali, a distinguere le domande utili da quelle fuori tema, se non addirittura fuorvianti.
Ricossa sviluppa e approfondisce l’analisi dell’economia come scienza sociale che studia le modalità con cui l’individuo affronta il problema della scarsità e cerca di migliorare la propria condizione. L’articolazione dei vari capitoli ci conduce pertanto attraverso le varie scuole di pensiero e la visione dell’economia che esse hanno espresso; senza però dimenticare che, oltre che di teorie, l’economia è fatta di azioni quotidiane, di una realtà a volte dura, con cui l’uomo si è misurato da quando abbandonò il Giardino Terrestre e pagò con la scarsità il dono di poter scegliere.
A mano a mano che si procede nella lettura si scopre che l’economia di Ricossa, che è anche quella di Aristotele, di David Hume, di Adam Smith e di Ludwig von Mises, è molto diversa da quella che di solito viene insegnata nelle aule dell’università e di cui si legge nelle pagine dei giornali. In particolare, e con grande lucidità, l’autore spiega come esistano sostanzialmente tre modi per discutere di economia. Il primo è il più sbrigativo e a prima vista anche il più affascinante: far finta che il problema non ci riguardi. Di qui il dispregio per la fatica, le attività manuali, il merito. E il convincimento che la ricchezza e il benessere non dipendano da ciò che produciamo o acquisiamo attraverso lo scambio, bensì da una sorta di diritto innato. In tempi antichi il diritto innato non era esteso a tutti. Era rivelato dalla classe di appartenenza - nobili, guerrieri, artigiani, schiavi. Chi non accettava la propria condizione e cercava di migliorare era considerato con il disprezzo che i nobili, soprattutto se decaduti, riservavano ai borghesi i quali, sporchi di grasso o segnati dalla fame e dall’avidità, erano incapaci di impugnare correttamente le posate. Per la verità, l’idea del diritto innato è presente ancora oggi. Si è però evoluto, fino a diventare uno dei bastioni a difesa della redistribuzione del reddito. Nelle società moderne il principio della divisione in classi di nascita è stato sostituito dal diritto al benessere indipendentemente dai meriti, dalla fatica di ognuno, da come questo benessere è stato acquisito. Hanno sì perso forza di attrazione coloro che asserivano che la proprietà/ricchezza è un furto; ma sembrano riscuotere consensi crescenti coloro che sostengono che sottrarre ai ricchi sia comunque un atto di giustizia (sociale), indipendentemente dai meriti e dalle condizioni dei beneficiari. Il risultato è che abbiamo dimenticato il senso dell’economia e abbiamo trasformato la scienza economica in un’analisi dei meccanismi redistributivi, illudendoci di poter utilizzare uno strato di vernice scientista per conferire legittimità alla tirannia o alla demagogia, a seconda dei casi.
Un secondo blocco di capitoli si contrappone alle tesi di chi crede di poter studiare gli individui come se questi fossero robot, e che ritengono che la soluzione finale del problema economico non sia che una questione di tempo. Per loro, gli adoratori della perfezione, sommo sarà lo studioso che definirà il “modello finale”, il sistema di equazioni che offrirà al decisore la chiave del nostro comportamento, dei nostri desideri e del nostro bene (anche se talora ci ostiniamo a non riconoscerlo). Benché l’idea di finire in mano a un Grande Fratello sia già stata coltivata in passato con risultati tutt’altro che entusiasmanti, l’economia è stata di fatto dimenticata anche in questo caso; ed è stata sostituita dalla modellistica, dalla ricerca ed elaborazione di dati per verificare le capacità di proiettare il passato nel futuro.
Di qui la statistica economica, trasformatasi in novella versione dello storicismo ottocentesco, capace di illudere e offrire la speranza di mutare in certezza ciò che certo non può essere. Insomma, l’economia della perfezione che Ricossa ci addita è come una pietra filosofale in mano ad apprendisti stregoni, pressoché innocui se rintanati nei propri studioli, assai più nocivi se affiancati a politici e burocrati affascinati dalla pseudo-tecnocrazia sociale e dal potere.
Al termine di quest’attenta operazione di pulizia intellettuale, e coerente con gli insegnamenti della Scuola austriaca, Ricossa non nega certo che sia importante studiare la realtà, conoscere i dati e i fatti, senza i quali lo scienziato sociale non potrebbe del resto nemmeno lavorare. Tuttavia, proprio perché l’economia è fatta di individui che scelgono, che innovano, che scambiano, che cooperano al fine di migliorare la propria condizione, per Ricossa il compito dell’economista consiste nello spiegare tali azioni, che sono in parte il frutto di calcoli più o meno razionali, ma anche e soprattutto di emozioni, di pregiudizi, di ideologie, di passioni. Con ciò non si vuole certo sminuire la funzione dello storico economico, al quale spetta il compito fondamentale di comprendere i meccanismi che in passato hanno prodotto certi risultati; né si intende sottovalutare la funzione dello statistico economico, che si occupa di raccogliere e “far parlare” i dati che descrivono il comportamento dell’individuo, da solo e all’interno di un sistema di interazioni (la società).
Nondimeno, e giustamente, Ricossa prende le distanze da coloro che si proclamano economisti, ma che in realtà propongono una visione costruttivista del nostro futuro e che, nascosti dietro formule, regole ottimizzanti e ipotetiche funzioni di benessere sociale, cercano di imporre agli individui una visione del mondo a cui sono associati prelievi fiscali, regolamentazioni e, in generale, violazioni della nostra libertà.
La conclusione, ancora oggi estremamente attuale, è che l’unica economia possibile è quella che studia l’uomo, la sua azione, i suoi percorsi attraverso errori e tentativi per cercare di vincere la scarsità, scambiando e acquisendo conoscenza. Sotto questo profilo non c’è spazio né per la politica, né per le ideologie totalitarie. Il ruolo delle istituzioni è limitato a garantire all’individuo la libertà di scegliere, di scambiare, di intraprendere. Quando si nega tale libertà e le istituzioni sono dirette verso altri scopi si esce dall’economia e si entra nel libro dei sogni, il mondo perfetto, noto e disegnato da pochi eletti, di solito autoproclamatisi tali; sogni che non di rado si rivelano incubi, se non tomba di civiltà.