Alberto Mingardi
Rassegna stampa
5 ottobre 2020
Ma è un industriale o un politico?
Milton Friedman, la responsabilità sociale dell'impresa e il ruolo del profitto
Considerazioni sulla responsabilità sociale d'impresa a cinquant'anni da un celebre articolo del leader degli economisti monetaristi. Le similitudini con le «banche con gli aggettivi» di Luigi Einaudi

Ci sono articoli che sopravvivono allo scorrere del tempo. Per tutto il mese scorso, si è riaperto un intenso dibattito su un breve saggio, lungo grosso modo il doppio del pezzo che state leggendo, cinquant'anni dopo la sua pubblicazione. L'aveva scritto, però, Milton Friedman ed era uscito il 13 aprile 1970 sul New York Times Magazine. Sei anni prima del Nobel, l'economista di Chicago era già un personaggio pubblico. Friedman aveva un'energia portentosa. Chiarissimo e brillante, si era già cimentato con un lavoro di alta divulgazione nel 1962, scrivendo «Capitalismo e libertà». Nell'articolo del ‘70, riprende alcune tesi già espresse nell'ottavo capitolo di quel libro.

Pensando agli uomini d'affari che, per difendere la propria posizione nella società, tendono costantemente a ricordare che l'impresa ha anche altri «obiettivi sociali» oltre al perseguimento del profitto, Friedman scrive che essi «sono le marionette inconsapevoli delle forze intellettuali che da decenni stanno minando alla radice le basi di una società libera». Queste forze intellettuali non hanno perso smalto negli scorsi cinquant'anni.

Il mestiere del manager...
Alla responsabilità sociale d'impresa, Friedman si opponeva per una ragione di chiarezza e, si direbbe oggi, di trasparenza. Gli amministratori di un'impresa hanno una responsabilità specifica: essi sono stati eletti dagli azionisti per gestire l'azienda di cui questi ultimi sono proprietari, nel miglior modo loro possibile. Il profitto entra in gioco come elemento segnaletico: esso dimostra come l'impresa sta facendo buon uso dei fattori produttivi. Utilizzare al meglio le risorse a disposizione è il compito, altamente specifico e circoscritto che gli azionisti, che dell'impresa sono i proprietari, assegnano agli amministratori. Già non è facile, per i primi, valutare questi ultimi: c’è una asimmetria informativa, l’amministratore delegato, immerso nell’operatività, dispone di conoscenze che altri non possono avere. Proprio per questa ragione, soprattutto per le aziende quotate, la «fame» di informazione ha portato a sviluppare metriche e strumenti per offrire notizie e prospettive a chi già possiede azioni e a chi valuta di acquistarle. In tutti questi casi, il profitto è il termometro per attestare la salute dell'impresa – e prenderle la temperatura oggi serve per capire come starà domani.

Molti avversari di Friedman (a cominciare da Joseph Stiglitz e Robert Reich) hanno biasimato l'influenza di quell'articolo. Il profitto sarebbe diventato una sorta di feticcio, lo spirito dei tempi dichiara che greed is good e l'attenzione ai guadagni farebbe perdere di vista questioni ben più rilevanti.

...E la professione social!
A guardarsi intorno, tutto parrebbe tranne che noi si viva nel «mondo di Friedman». La locuzione «responsabilità sociale d'impresa», dall'essere materia di dibattito intellettuale, è diventata un vero e proprio lavoro. Le grandi imprese tipicamente impiegano professionalità precisamente per svolgere questa «funzione sociale» che è ormai una «funzione aziendale». I sistemi fiscali tendono ad agevolare donazioni e interventi da parte delle imprese. Non c'è corporation di un qualche rilievo che non abbia un «bilancio sociale».

A riannodare i fili del dibattito è stato il sito del New York Times, che ha ospitato una ventina di interventi nella sezione DealBook, ma anche ProMarket, la vetrina on line dello Stigler Center della Booth School of Business dell'Università di Chicago. In Italia, il Foglio ha dedicato alla questione un numero speciale.

Luigi Zingales ha sottolineato come sia importante mettersi d'accordo su ciò che Friedman effettivamente dice, e cosa no. L'autore di «Capitalismo e libertà» scrive che «un'impresa ha una e una sola responsabilità sociale: quella di utilizzare le proprie risorse e dedicarsi ad attività miranti ad aumentarne i profitti, a patto di rispettare le regole del gioco, vale a dire di impegnarsi in una competizione aperta e libera, senza inganni né frodi». Friedman era ben lontano dal sostenere che le imprese dovessero fare profitto «a qualsiasi costo». Egli poneva l'accento sull'importanza del diritto: i vincoli istituzionali, norme buone o cattive in materia di frode, furto e coercizione rendono il perseguimento del profitto benefico o dannoso per la società. In una società con buone istituzioni, le bugie hanno le gambe corte. Friedman aggiungeva un vincolo collaterale al dovere fiduciario del manager nei confronti degli azionisti. «In generale, questo consisterà nel fare più soldi possibile rispettando al tempo stesso le regole fondamentali della società, sia quelle che prendono corpo nelle sue leggi, sia quelle che si concretano nelle sue consuetudini etiche». Nota bene: «consuetudini etiche». L'etica nel pensiero di Friedman definisce il perimetro del socialmente ammissibile.

Sul New York Times, è stato il fondatore di HomeDepot, Ken Langone, a ricordare come l'avere buone relazioni con i fornitori e offrire ai consumatori il miglior servizio possibile non è certo in contraddizione col principio enunciato da Friedman: «I dipendenti sono più produttivi quando vengono trattati generosamente e quando il loro lavoro ha senso e significato. I clienti e i fornitori stringono con noi relazioni più forti, perché sanno che si basano sulla fiducia».

Tutto ciò non significa che la ricerca del profitto sia la motivazione che sta dietro ogni singola azione: l'imprenditore che introduce forme avanzate di «welfare aziendale» può ritenere che sia una cosa buona in sé, gli impiegati che investono, quotidianamente, nel rapporto coi consumatori non riflettono solo la formazione fatta in azienda ma anche attitudini e principi etici personali. Fra i critici di Friedman, nel corso degli anni, c'è stato anche il fondatore di WholeFoods, John Mackey, per cui le motivazioni del singolo imprenditore molto spesso hanno poco a che vedere col profitto. Chi mette tutto se stesso nella creazione di una nuova azienda insegue spesso dei sogni: il sogno di migliorare la vita delle persone, con un nuovo prodotto o servizio, l'obiettivo di squadernare tutto un mercato eliminando rendite o inefficienze.

Ma nel momento in cui «ignoriamo la cristallina percezione di Friedman – ossia che ogni azienda dev'essere spinta principalmente dalla ricerca del profitto», scrive Langone, «l'intera missione, compresi i suoi aspetti benevoli, fallisce miseramente». Perché? Perché il mercato, in un certo senso, diventa politica: il management acquisisce una libertà totale, deve rendere conto non più ai suoi azionisti (per l'appunto) ma a gruppi nella società (stakeholder) che di fatto può scegliere sulla base della sua convenienza. Quando il suo mestiere non è fare profitto, è creare consenso.

L'aggettivo che cambia
Non a caso, ben prima di Friedman qualcosa di simile l'aveva scritta anche Luigi Einaudi, in un articolo sul Corriere della Sera del 23 agosto 1924. L'economista piemontese si confrontava con l'«innovazione urgentissima nel meccanismo economico e politico esistente oggi in Italia», la combinazione di parole «banca fascista» che seguiva la «banca cattolica» e quella «socialista». Per carità, scriveva l'economista piemontese, benissimo che «colui il quale ha una fede» cerchi di disporre di «tutti i mezzi a sua disposizione per far trionfare i propri ideali. Se il cattolico vuol giovare a commercianti, ad agricoltori, ad industriali cattolici e non a quelli protestanti od israeliti od agnostici, porti pure i risparmi suoi alla banca cattolica; e così dicasi del socialista o del fascista».

Il problema è che la banca con l'aggettivo cambia mestiere: sarà infatti spinta da più parti a dare credito a imprese che hanno a loro volta l'aggettivo giusto, per non dire di tutti coloro che, pur non essendo cattolici (protestanti, socialisti, eccetera), improvvisamente si convertiranno a quel credo, per beneficiare di denaro a condizioni di favore. L'obiettivo può essere più o meno lodevole, ma in ultima analisi la banca avrà tanto più successo quanto più sarà capace di dimenticarsi dell'aggettivo, e di agire come un istituto di credito tradizionale, che non elargisce prestiti in base a caratteristiche «extra-economiche» dei richiedenti. In qualche modo, tornare a quelle pagine di Einaudi ci rammenta che c'è ben poco di nuovo nell'idea di un'economia dove il ruolo degli shareholder è stato superato dagli stakeholder. È quell'economia corporativa e politicizzata che abbiamo ben conosciuto in Italia: un'economia dove contano le appartenenze, i favori, le motivazioni extra-economiche che sono opache.

Posti o promesse
In un libro di qualche anno fa («Gli affari sono affari»), David Henderson, un ex economista dell'Ocse, sottolineava come i fautori della responsabilità sociale, riprendendo un antico scetticismo nei confronti del profitto, non colgano come le imprese creino i maggiori benefici per la società non con annunci grondanti buoni intenzioni, ma semplicemente nello svolgere il loro ruolo primario. Perseguendo il profitto, creano occupazione, fanno innovazione, producono e vendono beni e servizi che i consumatori desiderano. Reddito pro capite e standard di vita negli ultimi duecento anni non sono cresciuti grazie alla logica del dono ma perché impegnati ciascuno a migliorare la nostra condizione, abbiamo finito per accrescere le possibilità di tutti. Guardacaso, anche oggi non è dalla benevolenza del macellaio che ci attendiamo il nostro desinare.

da L'Economia del Corriere della Sera, 5 ottobre 2020