Alberto Mingardi
Rassegna stampa
4 ottobre 2013
La società della partecipazione che piace al re e al filosofo
E' improbabile che re Willem Alexander abbia mai letto Ken Minogue. Eppure, quando il sovrano olandese dice che «il welfare state della seconda metà del XX secolo si è sviluppato con le sue norme e regolamenti su un terreno che non può più sostenerlo», riprende una riflessione cara al filosofo australiano per nascita, ma britannico in tutto. Minogue, scomparso a 83 anni lo scorso giugno, sul volo di ritorno dalle isole Galagagos, dove aveva partecipato a un seminario della Mont Pelerin Society (l'internazionale degli studiosi liberali), non era particolarmente interessato agli effetti economici di uno Stato sociale pesante come quello che abbiamo. La sua attenzione, piuttosto, si fermava sugli aspetti morali.

Per il re d'Olanda, il suo Paese deve diventare «una società della partecipazione»: le persone devono imparare di nuovo ad aiutarsi da sé, e l'una con l'altra. La croce dello Stato sociale, ha spiegato Minogue in un libro strepitoso, La mente servile (2010, trad.it 2012, prefazione di Franco Debenedetti), è il modo in cui alimenta la dipendenza delle persone dalla mano pubblica. Si crea col tempo una società nella quale diversi «gruppi» cominciano a vivere di «risarcimenti» della collettività, giacché sono considerati vittime della realtà delle cose. La politica risponde, però, solo «a classi astratte di sofferenza». La vita concreta dei singoli non entra nel dibattito pubblico, le forme più gravi di disagio sfuggono al radar del welfare state, consumandosi in un mondo senza carte d'identità e moduli da compilare. Invece la discussione politica è fatta di immagini persuasive, simboli che s'inflazionano e richiedono una spesa pubblica sempre più elevata. L'effetto collaterale, nota Minogue nel suo ultimo saggio, presentato alle Galapagos e pubblicato dal mensile New Criterion sul numero di settembre, è che i «ricchi» stati occidentali sono ridotti a una «bancarotta cronica». Le opinioni pubbliche sono sempre preoccupate dei «difetti della nostra civiltà», e hanno sviluppato l'abitudine di appellarsi all'autorità per correggere ogni «imperfezione sociale».

L'ansia «perfettista» ha a tal punto alimentato la spesa che è stato inevitabile il crescente ricorso all'indebitamento. E ancora non si placa. «Tutte le società sono necessariamente imperfette, e renderle perfette non è un'opzione per creature fatte come sono fatte gli esseri umani». La crisi del debito è l'effetto ultimo di un eccesso di fiducia nello Stato. Il paradosso è che ci siamo convinti che, se contro l'ingiustizia il potere pubblico può tutto, il singolo individuo non può niente. «Il rispetto del pubblico per i politici è da tempo in declino, anche se in generale la popolazione è stata sempre più sedotta dall'idea che sí potesse chiedere al governo di agire, per risolvere qualsiasi problema». Disprezziamo la politica, ma ne vogliamo di più. Ci sentiamo impotenti davanti al male, e nello stesso tempo rinunciamo a provare, ciascuno per quel che può, a fare la sua parte. Il verbo "aiutare" può essere declinato anche alla prima persona singolare.
I richiami al rigore non convincono mai, figurarsi se vengono da una testa coronata. Ma la lezione di Minogue, che è stato ricordato i124 settembre a Londra da un nutrito gruppo di estimatori e amici, è proprio che il problema non è il «rigore». E che la società libera non può sopravvivere se la parola«responsabilità» scompare dal nostro vocabolario.

Da Il Sole 24 ore, 4 ottobre 2013