Serena Sileoni
Rassegna stampa
La flat tax oltre i pregiudizi
Un'alternativa concreta
Come ha scritto Francesco Pacifico sul Mattino di ieri, nell'Europa welfaristica e keynesiana la parola flat tax è quasi una bestemmia. Contro di essa, c' è un pregiudizio ideologico di fondo, alimentato da molti fattori (a partire forse dallo stesso aggettivo flat) e da una cultura, giuridica prima di tutto, piuttosto uniforme nel confondere le caratteristiche del fine con quelle del mezzo. Il modello di Stato contemporaneo, prima ancora che le regole fiscali, si è intestato un compito: ridistribuire le risorse per aiutare chi ha meno disponibilità a raggiungere i propri obiettivi di vita. Per questo, alcune Costituzioni, tra cui la nostra, cristallizzano il principio di progressività: a chi più ha, è chiesto un dovere di solidarietà economica maggiore e più che proporzionale rispetto a chi meno ha. Si può essere o meno d' accordo che sia questa la strada per raggiungere un più ampio benessere e garantire meglio l'emancipazione di quanti si trovino in difficoltà. Ma questo punto, almeno nel nostro Paese, va preso per assiomatico, se si vuole ragionare nel merito politico della flat tax.
È più utile domandarsi, invece, se gli obiettivi prefissati dal nostro modello fiscale siano stati raggiunti. Il regime fiscale basato, in teoria, su un'imposta sul reddito progressiva per scaglioni ha dato i risultati attesi, in termini di equità fiscale, uguaglianza sostanziale, redistribuzione delle risorse e diffusione del benessere? C'è un accordo unanime nel dire di no. La flat tax sarà pure la fatina blu, come l'ha definita il ministro dell'economia Padoan (riferendosi per la verità alle fantasiose coperture previste da alcune proposte), ma l' attuale sistema è un figlio malandato e sfortunato di cui nessuno, nemmeno i genitori, è disposto più a rivendicare la paternità. E in effetti di equo, il nostro sistema ha ben poco. E quel poco che ha (le aliquote progressive sul reddito) è completamente sterilizzato da una messe di deroghe alla regola generale che, alla fine, fa gravare il carico impositivo esclusivamente sulla fascia medio-bassa dei lavoratori dipendenti e pensionati. Esattamente l'opposto delle intenzioni. La flat tax è un'alternativa concreta e praticabile a uno stato delle cose criticato da tutti, nel concreto, ma inspiegabilmente difeso come il più giusto. Una alternativa rispetto alla quale nessuno, in questa campagna elettorale è stato in grado di opporre una alternativa. Lo stesso M5S ha dovuto accettare l'idea di una sostanziale riduzione delle aliquote (da cinque a tre). Non è ancora una flat tax, ma lo sarà presto. Se ci si liberasse dal peso dei pregiudizi, si vedrebbe che la flat tax non è né l'imposta per cui tutti pagano uguale (idea assurda che pur circola nell'opinione pubblica) né l'imposta per cui i ricchi pagano in proporzione meno dei poveri, né, come qualcuno pensa, il modello impositivo di "paradisi fiscali" e "repubbliche delle Bananas". E nel valutare l'esperienza della flat tax in altri Paesi sarebbe bene non attribuire ad essa responsabilità che non sono sue. Sappiamo cosa è accaduto in Islanda durante la crisi. Conosciamo la dipendenza dell'economia russa dal petrolio. E vediamo che anche l'Arabia Saudita è alla ricerca di un modello di sviluppo diverso. In tutti i casi la flat tax c'entra poco o nulla. Il punto vero è altro: esistono modelli di flat tax più o meno credibili. E la credibilità è data soprattutto da due elementi. Il livello dell'aliquota unica (troppo alta, sarebbe vessatoria; troppo bassa, non avrebbe coperture); e i meccanismi, assolutamente possibili, per garantire che l'imposta rispetti il principio di progressività. Ma, di fronte alle critiche apodittiche che circolano, questi sono, in fin dei conti, dettagli.
Da Il Mattino, 25 gennaio 2018