Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro
Rassegna stampa
Il virus di un altro mondo
Le conseguenze economiche dell’epidemia e l’impatto sul processo di globalizzazione
Il vero vaccino è proprio la globalizzazione
Nell’epoca del coronavirus non è più tutta colpa del neoliberismo. Adesso è colpa della globalizzazione – che, beninteso, del neoliberismo è madre o figlia, a seconda del grado di complottismo del vostro interlocutore. L’accusa sembra, stavolta, più solida. Non stiamo “importando” un virus di provenienza cinese? Che le persone, muovendosi, si portino appresso le loro malattie non è notizia di oggi. Di epidemie è costellata l’intera storia umana, che è pure storia di spostamenti e migrazioni. Oggi a quegli spostamenti, grazie alla “globalizzazione”, corrisponde un grado più elevato di divisione del lavoro. La differenza fra la globalizzazione che conosciamo noi oggi, e fasi di crescita dello scambio internazionale in epoche precedenti, è data dalla misura in cui si sono complicate le filiere produttive, rendendoci tutti molto più interdipendenti.
Sul piano economico, l’argomento anti globalizzazione è che questa interdipendenza ha costi che abbiamo trascurato, e che ora riguardano tutti. E’ un triste esercizio immaginare che ne sarebbe stato, del nostro benessere, se negli ultimi anni le imprese italiane, specie quelle manifatturiere, non fossero state capaci di inserirsi nelle catene globali del valore creando ricchezza e occupazione per il nostro paese. Semmai, l’impatto economico del coronavirus dipende proprio dal fatto che, almeno temporaneamente, queste reti di rapporti commerciali si sfilacciano – per difficoltà oggettive o per l’insorgere di sfiducia o timori reciproci – e il mondo attraversa una fase di de-globalizzazione. Ciò può avere effetti positivi per alcune imprese, che vorrebbero fare il “reshoring” di alcune produzioni: forse la politica, più che mai, dovrebbe prestare attenzione a non ostacolarli. Ma il reshoring può avere effetti benefici “localizzati” (quell’azienda, quei lavoratori, quel prodotto) e tuttavia non può certo compensare il problema della perdita non solo di servizi e beni oggi prodotti, ma dell’opportunità di innovare, realizzarli diversamente e in modo più produttivo, che è possibile solo in un mercato aperto nel quale il numero dei produttori potenziali è il più ampio possibile.
C’è anche un altro elemento di importanza cruciale. Noi vediamo le ripercussioni di uno shock globale, e giustamente siamo preoccupati per quello che potrebbero comportare. Ma, grazie alla globalizzazione, non conosciamo più (o conosciamo solo in forma molto lieve) le conseguenze devastanti che avevano, nel passato, gli shock locali. Una carestia o un’epidemia potevano determinare la scomparsa di intere comunità. Se questo non accade più è proprio perché la dipendenza reciproca agisce come una rete di salvataggio per tutti. Anche in un momento di grande ansia, non temiamo seriamente che possano venir meno le derrate alimentari o che servizi essenziali non saranno più disponibili.
E’ vero, invece, che alcuni settori economici subiscono un impatto particolarmente grave. Se per la maggior parte delle imprese si tratta di stringere i denti e tirare avanti, alcune sanno di aver perso una quota del loro business forse irrimediabilmente, e comunque per un periodo molto lungo.
E’ il caso, ovviamente, del turismo, ma anche di alcune attività agroalimentari, di molte partite Iva, che non godono di alcuna forma di protezione e più in generale dei servizi: non si possono immagazzinare e vendere in futuro le giornate di lavoro dei barman, delle manicure o dei dentisti. Per i più giovani, per chi oggi si affaccia sul mercato del lavoro, la situazione è particolarmente pericolosa, dal momento che l’impressione è quella di una devastazione di opportunità. Tradizionalmente, il “piccolo” è resiliente: una trattoria chiude oggi ma gli stessi fattori produttivi possono riorganizzarsi in un’altra trattoria, appena il tempo volga al bello. Se non fosse che la vita dei “piccoli” è complicata da adempimenti e obblighi di ogni tipo. E’ proprio in questo caso che ci si aspetta che lo stato svolga un ruolo da cuscinetto. Ma ciò presuppone uno sforzo di adattamento a un mondo che cambia: per esempio, facilitare l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali, non ostacolare il fallimento di quelle inefficienti e sostenere i lavoratori durante le loro transizioni professionali. Purtroppo, la politica italiana ha preferito difendere sistematicamente lo status quo, anche facendo un uso generoso della leva fiscale: in tal modo ha rallentato i processi di aggiustamento strutturale, e si è privata dello spazio fiscale che servirebbe proprio in una situazione come quella odierna. Ma, soprattutto, ha anestetizzato il dinamismo imprenditoriale. Del quale avremo tremendamente bisogno, quando l’emergenza sarà finita e dovremo provare a ricostruire il nostro benessere.
da Il Foglio, 9 marzo 2020