Alberto Mingardi
Rassegna stampa
Il realismo liberale di Von Hayek: "La pianificazione rende schiavi"
Moriva 25 anni fa il Nobel per l’economia: criticò i regimi totalitari che pretendevano di dettare il futuro agli individui
Nel 2010 Barack Obama varava la sua riforma sanitaria. In Europa «Obamacare» raccolse solo elogi, molti americani l'accolsero con più freddezza. Temevano la crescente concentrazione del potere e leadership sempre più autoreferenziali.

Proprio per questo, riportarono un libro di sessantasei anni prima in vette delle classifiche di Amazon. Era La via della schiavitù di Friedrich von Hayek, morto venticinque anni fa, il 23 marzo 1992.

Nato a Vienna, Hayek aveva combattuto sul fronte italiano nella grande guerra. La via della schiavitù venne scritto durante la guerra successiva. Hayek insegnava alla London School of Economics e due giorni dopo l'invasione della Polonia scrisse al Ministero dell'Informazione britannico, offrendo, invano, i propri servigi per qualsiasi operazione propagandistica nei territori tedeschi. Hayek era convinto che quella libertà per cui gli inglesi combattevano potesse attecchire in Germania: ma due generazioni di tedeschi erano stati avvelenati «dalla distorta visione della storia con cui sono stati allevati negli ultimi sessant'anni».

Uno studioso formatosi nella Vienna degli anni Venti avvertiva un certo deja vu. In una recensione a due libri sulla Germania, uscita sullo Spectator, notava come gli autori sembrassero biasimare più i fini che i mezzi impiegati dai nazisti: erano insomma convinti che si potesse avere «tutta quella pianificazione, che in Germania più che altrove è stata universalmente acclamata» senza però cadere nel totalitarismo.

La guerra aveva portato a una forte centralizzazione della vita economica: ogni risorsa doveva essere messa al servizio dello sforzo bellico. Cominciava a circolare l'idea che il relativo successo della pianificazione in tempo di guerra la raccomandasse anche in tempo di pace. La differenza, non da poco, è che in un caso si trattava di subordinare ogni decisione di produzione a un singolo fine: la vittoria. Non così nell'altro caso: in una società libera i fini sono i più diversi, come le persone che la compongono.

Hayek pensava che fosse difficile preservare la libertà individuale, in un mondo nel quale era lo Stato a dire al singolo cosa doveva produrre e cosa doveva consumare. Il problema del socialismo era che esso «presuppone che il consenso in merito all'importanza relativa dei diversi possibili fini sia più completo di quanto non sia realmente possibile (...) di conseguenza, per poter pianificare, le autorità debbono imporre alla popolazione un preciso codice di valori».

In un'economia complessa, il socialismo doveva per forza essere coercitivo. «Ordinare» la società dall'alto significa scegliere quali ambizioni, bisogni, desideri delle singole persone meritano di essere realizzati e quali no.

La via della schiavitù fu un piccolo caso letterario anche all'epoca, grazie soprattutto a un'edizione ridotta del Reader's Digest, diffusa in oltre un milione di copie. Col successo venne anche qualche incomprensione. Si disse che Hayek sosteneva che ogni genere d'intervento pubblico avrebbe innescato un processo destinato a finire con l'abbraccio di un modello totalitario. L'accusa era paradossalmente rivolta a un studioso che aveva spiegato in lungo e in largo che la nostra conoscenza dei fenomeni sociale è sempre parziale e pertanto «non ci consentirà quasi mai e forse mai del tutto di predire con precisione lo sbocco ultimo di ogni situazione concreta».

In molti hanno pensato che la convivenza di libertà democratiche ed elevata spesa pubblica bastasse a confutare l'opera di Hayek, in pochi ne hanno compreso il senso profondo. Per l'economista austriaco, nessuno ha a disposizione «dati» a sufficienza per plasmare la società nel modo migliore: anche perché questi «dati» cambiano continuamente, dal momento che dipendono da preferenze e scelte dei singoli individui.

Dopo il Premio Nobel ricevuto nel 1974, il pensiero di Hayek è oggetto di ripetute riscoperte. La sua lezione più duratura è che non c'è scienza della società che possa davvero, con sicurezza, determinarne il futuro. Ogni epoca ha i suoi entusiasmi per qualche magica ricetta politica. Ci vuole qualcuno che, di tanto in tanto, rovesci il cilindro e sveli il trucco.

Da La Stampa, 23 marzo 2017