Susanna Tamaro
Rassegna stampa
Il paese dei balzelli: i campi svuotati dalla burocrazia
In campagna si «muore» di burocrazia - I miti bucolici diventano incubi
La via per comprendere la profonda contraddittorietà del nostro Paese è una sola. Provare a fare qualcosa. Finché si resta nel campo della teoria, infatti, si può anche trovare un bandolo, una traccia che, apparentemente, illumini il groviglio delle inutili complessità. Se invece ci si attiva in modo concreto, ben presto ci si rende conto della situazione: più ci muoviamo, più siamo prigionieri.

Personalmente mi sono sottoposta a diverse prove iniziatiche. Ho restaurato una casa, ne ho costruita un'altra, le ho dotate di un sistema fotovoltaico, ho creato una piccola azienda agricola. Tutto questo l'ho realizzato grazie unicamente ai soldi guadagnati con il mio lavoro, senza chiedere contributi e facilitazioni a nessuno, e l'ho fatto semplicemente perché sono convinta che, una volta risolti i tuoi problemi, devi provare a risolvere quelli degli altri. Ho sempre pensato che i soldi che stanno fermi, magari chiusi in qualche bel pouf - abitudine piuttosto diffusa a livello nazionale - non siano altro che carta. Non servono a niente e, dunque, non sono niente. Un'alluvione, un incendio, una famiglia di topolini affamati, il crack di una banca o un tonfo in Borsa bastano a vanificare ingentissimi risparmi. Dunque, armata delle migliori intenzioni e sedotta da quello che ora si chiama, purtroppo, storytelling - il ritorno alla terra, la superba eccellenza del Made in Italy alimentare ecc. ecc. - mi sono lanciata in quest'avventura. Sulla stampa e sui media siamo bersagliati da continue immagini da Mulino Bianco, che ci testimoniano le ardimentose esperienze di giovani sprezzanti del pericolo che hanno lasciato un'attività - o un'inattività - cittadina per dedicarsi alla terra, trasformando, grazie alle potenzialità offerte da questi tempi, quello che una volta era un lavoro inviso a tutti - lavorare la terra - in un'attività invidiabile oltre che, naturalmente, successful. Le attività verdi, insomma, sembrano diventate la mecca della nostra società. Sulla carta ciò non è sbagliato, il settore agricolo ha - o meglio avrebbe - grandi potenzialità. Potenzialità che però attualmente vengono vanificate in modo sistematico dai problemi cronici del nostro Paese. Da dove cominciare? Forse dalla bilancia della mia cucina dove, oltre a pesare la farina e lo zucchero, spesso controllo il peso degli incartamenti burocratici.

Per mettere in funzione l'impianto fotovoltaico ci sono voluti ben due chili di carte. Per ottenere il Psr, vale a dire il Programma di sviluppo rurale, finanziato con i fondi della Comunità europea, dallo Stato e dalle Regioni per sostenere - e incrementare? - questo settore, non credo che le carte necessarie siano molto inferiori di numero. Neanche gli addetti ai lavori sono ormai in grado di decifrare la scrittura cuneiforme dei burocrati!

Dato che il mio principale strumento di lavoro è la lingua italiana, provo un senso di indignazione assoluta davanti alla perversione del burocratese. In questa nebbia legislativa può avvenire tutto e il contrario di tutto e - tra questo tutto e il contrario di tutto - prospera la grassa intercapedine della corruzione.

Le imprese agricole dunque, come d'altronde ogni settore del nostro Paese, sono intrappolate in una quantità abnorme di leggi, molto spesso in contraddizione tra di loro, con un'aggravante in più. L'agricoltura è un'attività viva e mutevole, condizionata dalle stagioni e - ora più che mai - dalle bizzarrie meteorologiche. Aspettare, essere fermati, ritardare, bloccare per un intoppo burocratico può voler dire perdere o aver danneggiato il lavoro di un anno.

L'allegro storytelling del ritorno alla terra mostra il suo vero volto di fronte alla nuda crudezza dei dati. Il ritmo di chiusura delle attività agricole è di 60 al giorno, per un totale di 172.000 aziende chiuse negli ultimi anni. Continuando di questo passo, secondo gli studi di Coldiretti, tra 33 anni nel nostro Paese non esisterà più neppure un'azienda agricola. Forse, allora, la scienza avrà trovato delle pillole in grado di sostentarci senza alimentazione ma, se così non sarà, anche «il Paese dove fioriscono i limoni» si trasformerà in una landa di migranti ambientali.

Tra l'altro i limoni, povero Goethe, fioriscono sempre meno. In Sicilia, tanto per fare un esempio, il 50% degli agrumeti sono stati divelti, la stessa sorte stanno subendo i pescheti dell'Emilia, per non parlare dell'ecatombe di ulivi già avvenuta in buona parte delle regioni del Sud. Le politiche e le leggi comunitarie hanno – credo - una grande responsabilità in questo campo. Per quale ragione, infatti, una zucchina, per rientrare nella legalità, deve misurare 13 cm? E per quale altra, se non il delirio di un perverso, un grappolo di ribes deve avere almeno 12 chicchi per essere messo sul mercato? A chi giovano i frutti della terra trasformati in prodotti da catena di montaggio? Il resto del danno lo fa un mercato malato per cui un chilo di mele viene pagato 4 centesimi al produttore, mentre la sola raccolta ne costa 18. Si potrebbe farle raccogliere da chi ha bisogno, naturalmente, ma la legge non lo consente.

Le grandi raccolte che venivano fatte unendo le forze - un giorno mi aiuti tu, un altro ti do una mano io - non possono più esistere e, oltre alla civiltà umana, è la frutta la prima vittima di questo sistema. Non resta allora che lasciarla marcire sugli alberi. Ma lasciar marcire qualcosa che era nato per nutrirci non può che evocare sinistri presentimenti.

Presentimenti che si aggravano fino al panico quando a venir sradicati dalle ruspe sono centinaia, migliaia di alberi nel pieno del vigore vegetativo e produttivo. Come si può pensare che tutto questo non abbia conseguenze tragiche?

Fino ad ora, purtroppo, l'agricoltura nazionale è stata trattata alla stregua di un malato terminale: tenuta in vita con trasfusioni, tende di ossigeno, iniezioni di miracolosi prodotti rigeneranti il cui effetto è destinato a vanificarsi nel breve corso di una stagione. Di questo sostentamento artificiale hanno beneficiato soprattutto le realtà di grandi dimensioni. Alle aziende piccole, familiari, che costituiscono - o meglio, costituivano - l'ossatura della campagna italiana non è rimasto che soccombere. L'idea che la terra, lasciata a sé stessa, ritrovi l'arcaica armonia di un primitivo Eden è un sogno da seguaci di Gaia che poco o nulla ha a che fare con la realtà. Abbandonati a sé, gli alberi in breve non producono più frutti, i campi lasciati incolti non generano cibo ma rovi e copiose malerbe. La stessa sorte subiscono i pascoli dismessi. In poco tempo la vegetazione prende il sopravvento ovunque, annullando la possibilità di creare risorse alimentari.

Ormai da molto tempo coltivare la terra non rende più. Per le estensioni modeste, come quelle dei cereali, nel migliore - ma proprio nel migliore - dei casi, al massimo non si va in perdita. Il 23% del nostro territorio presenta ormai avanzati stati di degrado, percentuale che sale al 41,1% per il Centro-Sud. Dove degrado vuol dire deserto che avanza. E il deserto, è bene ricordarlo, è quel luogo in cui non cresce più nulla.

Un Paese che avesse a cuore il proprio futuro farebbe estesissime campagne di ri-alfabetizzazione agraria, concederebbe incentivi e sgravi - per ora presenti soltanto, credo, in Lombardia e Veneto - a chi applica l'agricoltura antideserto. Modalità di agricoltura che, oltre a essere lungimirante, consentirebbe un risparmio da subito. La preparazione di un letto di semina, infatti, con il sistema tradizionale costa 375 euro a ettaro, mentre con le tecniche scientificamente più moderne può arrivare a costare 68 euro per ettaro. Invece, per il momento, lo Stato continua a spendersi con gran zelo nell'unica attività che sembra davvero capace di fare: sorvegliare le irregolarità e somministrare multe.

Parafrasando il detto evangelico, verrebbe da dire che lo Stato va in cerca con spasmodica meticolosità di pagliuzze mentre con allegra sbadatezza si fa sfuggire le travi. «Mi arrendo! Non ce la faccio più!». Quante volte ho sentito ripetere queste parole! E quante realtà ho visto chiudere, mandando a casa uno, due, tre lavoratori!

In chiusura, dato che il mio mestiere è quello di raccontare storie, permettetemi di fare qualche esempio in grado di aiutare la comprensione concreta della tanto inneggiata vita in campagna per chi non ne ha la consuetudine. L'anno scorso la vendemmia di un mio conoscente è stata interrotta bruscamente da un controllo dell'Inps. Abominio! Risultava che pagava quattordici operai e invece nella vigna ce ne erano soltanto tredici! Inutile spiegare che il quattordicesimo aveva la febbre e che sarebbe stato grave il contrario: tredici operai pagati e uno in nero. Per i funzionari questa incongruenza nascondeva qualcosa di losco che necessitava di ulteriori, vessatori accertamenti. Dunque, niente più vendemmia. Con il bel risultato che l'anno dopo il mio amico ha comprato una bella macchina con cui ha fatto la vendemmia e i tredici, anzi i quattordici, a malincuore, li ha lasciati per sempre a casa. A me è capitato, ad esempio, di dover ridipingere una serra - serra peraltro visibile soltanto dal cielo! - perché la tinta non è stata ritenuta perfettamente in linea con la volontà dei sorvolatori. La multa dunque può arrivare per una tinta «sbagliata» ma può venire anche per un cugino o una zia che sono venuti a darti una mano nel vigneto o nell'uliveto - sfruttamento di mano d'opera -, per una piccola tettoia ombreggiante che hai tirato su durante la canicola estiva - falso ideologico -, per un vecchio ciuchino che hai salvato dal macello e che non hai dotato di regolare passaporto.

Già, i passaporti degli equini! A raccontarla adesso viene da ridere ma qualche anno fa questa vicenda ha fatto piangere diverse persone. Un bel giorno, infatti, qualcuno in qualche stanza aveva deciso, di punto in bianco, che tutti i quadrupedi di origine equina dovessero essere forniti di questo documento. Decisione naturalmente mai comunicata per lettera agli interessati, vale a dire ai proprietari di vari ronzinanti, e così, senza nessun preavviso, erano fioccate le multe. «Dov'è il passaporto della bestia?». «Perché? Serve un passaporto?». «Certo! Non si è adeguato alla normativa?». «Veramente non sapevo...». «Non legge la Gazzetta Ufficiale?». «A dire il vero, no...». «Allora sono tremila a capo. Lei ne ha quattro. Dunque fanno dodicimila». Come sfuggire al dubbio che si trattasse dell'ennesimo folle balzello, dato che, dopo solo due anni, il passaporto degli equini non è stato più considerato obbligatorio?

E per finire potrei andare avanti all'infinito come Sherazade nelle Mille e una notte vorrei raccontare ciò che è accaduto a una mia vicina di casa. La loro azienda produce bovini da carne e cereali. Oltre a questo, affittano una casa per le vacanze. Proprio mentre era intenta a pulire la casa per l'imminente arrivo degli ospiti, piomba un controllo dell'Inps. «A che titolo lavora in questa casa?» le chiedono. E lei serena: «Sono la padrona di casa». «Non è vero» le rispondono. «La casa risulta essere di suo marito». «Appunto...» cerca di controbattere la mia amica. «Ma lei non ha un regolare contratto di lavoro». «Sono la moglie» balbetta confusa, «siamo sposati da quarant'anni». Tutto inutile. L'alternativa era tra pagare ventimila euro di multa per lavoro in nero o l'immediata iscrizione all'Inps della moglie da parte del marito, anche se lei ha superato da un bel po' i sessant'anni. Che dire? I caporali ringraziano!

Nel 1840, John Ruskin durante un suo viaggio in Italia, annota nel suo diario: «Sono giunto alfine alla meta dopo aver subito l'assalto di una folta schiera di doganieri [...] Vediamo nell'ordine: porta di Bologna, uscita: passaporto e gabella. Ponte, mezzo miglio più avanti: pedaggio. Dogana, due miglia innanzi, lasciati gli Stati Pontifici: passaporto e gabella. Dogana, dopo un quarto di miglio, entrati nel ducato di Modena, prima l'ufficiale della dogana, poi l'addetto ai passaporti. Versato un tributo a entrambi. Porta di Modena, entrata: dogana, gabella, passaporto, idem. Porta di Modena uscita: passaporto, gabella. Porta di Reggio, dogana, gabella, passaporto, idem. Porta di Reggio, uscita: passaporto, gabella. Cambio di cavalli, più avanti: passaporto, gabella. Entrata nel ducato di Parma, ponte: pedaggio, dogana, gabella, passaporto, idem. Dunque in totale sedici soste, con una perdita media di tre minuti e un franco ogni volta. Quello della dogana di Modena non s'è rabbonito per meno di cinque paoli; l'ufficiale pontificio di Bologna ci ha assicurato che in coscienza non poteva evitare la perquisizione per meno di una piastra. Nell'intero sistema c'è un che di furtivo e abietto: arriva il doganiere, poggia la mano lurida sulla carrozza e non molla la presa finché non vi infili un franco, altrimenti attacca a frugarti».

Dal viaggio di Ruskin sono trascorsi centosettantasei anni. Le cose sono cambiate? Mah! Dato che il mio ciuchino ormai ha il passaporto, vien voglia davvero di saltare in groppa e lanciarsi al trotto verso le Alpi. Evitando ogni dogana, naturalmente.


Nelle librerie dal 10 giugno, «Noi e lo Stato. Siamo ancora sudditi?» a cura di Serena Sileoni (Ibl Libri) raccoglie le esperienze di vari giornalisti, studiosi e scrittori. Oltre a Susanna Tamaro (del cui intervento pubblichiamo uno stralcio) altri quindici autori raccontano attitudini, prassi e regole che mostrano una sorta di continuità tra il suddito dell'Antico regime e il cittadino dello Stato democratico. Noi e lo Stato non vuole essere una raccolta di lamentele su giustizia, Fisco, tutela della proprietà privata o fare impresa oggi in Italia, ma un'indagine, attraverso le diverse prospettive, delle ragioni di un rapporto asimmetrico e immaturo tra il cittadino e il potere pubblico, a partire da una nostra acerba vocazione alla libertà.

dal Corriere della Sera, 2 giugno 2019