Nicola Rossi
Rassegna stampa
Il falso bersaglio del fondo salva Stati
Non è l'Europa matrigna, ma la politica del giorno per giorno la peggiore nemica dell'Italia
Ecco cos'è a cosa serve il Mes e perché nel nostro Paese si mescolano continuamente le carte danneggiando la reputazione dello Stato e dei suoi cittadini

Nel 2011 alcuni pensavano che l'Italia avrebbe dovuto rivolgersi al Fondo monetario internazionale per tirarsi fuori dai guai. Altri – decisamente più numerosi dei primi – ritenevano che l'Italia (diversamente dalla Spagna) sarebbe dovuta uscire dalla crisi con le proprie gambe, senza vedersi dettata dall'esterno la linea di politica economica da seguire o, per dirla diversamente, senza ritrovarsi in qualche modo ed in qualche misura commissariata dalla cosiddetta Troika (e cioè dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dallo stesso Fondo monetario internazionale). I secondi prevalsero, com'è noto, e con essi prevalse la tesi secondo cui la disciplina finanziaria non può essere imposta attraverso una parziale e temporanea cessione di sovranità. Non a caso si volle introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione ma con modalità tali da renderlo del tutto inoffensivo.

Disciplina
A distanza di otto anni da quel momento ed in una condizione per fortuna meno drammatica, l'intera politica italiana – non riesco a trovare eccezioni – si schiera compattamente contro una riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) di cui si discute da oltre un anno e dei cui contenuti è semplicemente impensabile che la politica (tutta) non fosse informata visto che per esserlo era sufficiente leggere i principali quotidiani e frequentare la rete. E, per la precisione, si schiera contro l'ipotesi che il Mes (un esempio significativo di solidarietà intraeuropea) valuti la sostenibilità del debito dei paesi che, avendo perso l'accesso al mercato, dovessero eventualmente richiederne l'intervento. Il che, naturalmente, implica che gli stessi che otto anni fa rifiutarono l'ipotesi che fossero le regole ad indurre la disciplina finanziaria, oggi rifiutano anche l'ipotesi che sia il mercato a svolgere lo stesso ruolo.
Una parte del costo del salvataggio sarebbe infatti – nel caso di valutazione negativa da parte del Mes e di successiva ristrutturazione del debito – a carico dei creditori privati i quali non mancherebbero di tenerne conto. E per tempo. Con tutte le conseguenze del caso sui rendimenti dei titoli pubblici e sui bilanci dei loro detentori (in primis, le banche).
Ora, prescindendo da ogni valutazione circa l'opportunità di seguire l'una o l'altra strada e dimenticando per un attimo le condizioni in cui versano le nostre finanze pubbliche e la nostra economia, è difficile non porsi una domanda: l'Italia – che per inciso contribuisce in misura significativa al Mes – come ritiene che dovrebbero essere disciplinati i paesi che dovessero far ricorso al Mes e quindi ai fondi che anche l'Italia mette a disposizione? Se non si deve far ricorso alle regole e se non si può contare sul mercato, su cosa si deve fare assegnamento? Pensiamo seriamente di poter proporre ai nostri partner europei un Meccanismo europeo di stabilità che confidi solo ed esclusivamente sui buoni propositi dei paesi che dovessero richiedere assistenza?
Pensiamo seriamente di poter suggerire a chi risponde ai propri elettori (né più né meno di quanto la nostra politica risponde ai suoi) che alle regole e al mercato si debbano sostituire la benevola indulgenza e l'umana comprensione? O il genio italico ci spinge a pensare che ognuno debba affrontare da solo la prossima crisi? Naturalmente, dimenticare lo stato delle nostre finanze pubbliche e della nostra economia non è purtroppo possibile. E se diciamo no tanto alle regole quanto al mercato è semplicemente perché sappiamo bene che potremmo essere noi, molto più di altri, i primi a sperimentare le une e l'altro. E non sbagliamo.
Nonostante la svolta europeista intervenuta con il cambio di governo, l'Italia continua ad essere la mina vagante d'Europa. Come fa ormai da qualche anno, il Superindice elaborato dall'Istituto Bruno Leoni – calcolato sulla base delle stime della Commissione europea rilasciate lo scorso 5 novembre – continua a segnalare una crescente distanza fra la nostra configurazione macroeconomica e quella media osservata nell'area dell'euro. Quello che nel 2013 era una tendenza ad un lento e graduale avvicinamento ai nostri partner europei è oggi un trend di rapido allontanamento da chi con noi condivide la moneta comune. Un trend al quale tutti gli ultimi governi hanno attivamente contribuito.
Certo fra la rilevazione del novembre 2018 e quella del novembre 2019 si avverte una minima attenuazione delle tendenze, ma è inutile girarci intorno: il nostro rifiuto della disciplina finanziaria associato alle pluridecennali e negative tendenze della produttività ci sta consegnando alla marginalità economica ed alla irrilevanza politica. L'approvazione «con riserva» da parte della Commissione europea della legge di bilancio all'esame del Parlamento è, da questo punto di vista, null'altro che un atto dovuto.
L'espressione di una elementare prudenza.

Logica del pacchetto
In tutto questo, non sappiamo fare di meglio se non affermare che ogni decisione circa eventuali nuove regole europee non potrà che essere assunta nella «logica del pacchetto» e cioè solo se si arrivasse ad un accordo contestuale circa la riforma del Mes, il completamento dell'unione bancaria e la creazione di uno strumento di bilancio per la competitività e la convergenza dell'Eurozona. Se così non fosse – e le probabilità sono elevate che così non sia – la posizione negativa dell'Italia potrebbe imporre il rinvio della discussione (e con esso, per esempio, anche il rinvio della rete di sicurezza per i sistemi bancari). Arrivare finalmente e rapidamente al definitivo completamento dell'unione monetaria sarebbe invece necessario ed urgente. Ma per partecipare con credibilità alla discussione del «pacchetto» si sarebbe dovuto prendere atto delle difficili condizioni della finanza pubblica e sfruttare l'occasione della legge di bilancio per avviare – concretamente – un percorso di rientro del debito. Nulla di tutto questo è stato, colpevolmente, fatto. Risultato: se l'accordo nella «logica del pacchetto» non si trova anche le pietre capiranno – se già non l'hanno capito – che è l'Italia il vero anello debole della costruzione europea (con tutte le conseguenze del caso). E se l'accordo si troverà la disciplina di mercato – visto che le regole non hanno funzionato – non mancherà di essere presente in qualche modo in qualcuno dei capitoli in discussione. Sia nel primo che nel secondo caso sarà bene non prendersela con l'Europa.

da L'Economia del Corriere della Sera, 25 novembre 2019