Carlo Marsonet
Rassegna stampa
24 gennaio 2021
La guerra al capitalismo è il modo per creare un mondo di nuovo povero
Recensione del libro di Rainer Zitelmann, "La forza del capitalismo"
Il volume qui in considerazione è una traduzione dall’originale tedesco Kapitalismus is nicht das Problem, sondern die Lösung. in esso, Rainer Zitelmann, dottore di ricerca in storia e sociologia, affronta il tema del capitalismo e dell’anticapitalismo a partire dall’osservazione storico-empirica. In altre parole, si prefigge di esaminare cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato nell’adozione di misure favorevoli all’economia di mercato o, per contro, di pianificazione economica in un medesimo paese (Cina, Regno Unito, USA, Svezia), in paesi diversi ma caratterizzati dalla medesima storia e cultura (Cile e Venezuela, Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Democratica Tedesca, Corea del Sud e Corea del Nord) e nel continente africano.

Va detto subito che si tratta di un testo militante, come traspare dal titolo stesso del libro. Infatti, attraverso dati, statistiche e analisi storiche, Zitelmann sostiene la tesi che “il capitalismo è la causa principale dell’aumento globale del tenore di vita su una scala senza precedenti nella storia dell’umanità prima dell’avvento dell’economia di mercato” (p. 24).

Seguendo un’ispirazione misesiana, l’autore parte dall’idea che un’economia moderna può essere organizzata secondo due distinti principi, sebbene nessuno dei due sistemi sia mai esistito in forma pura: da un lato, lo Stato detiene la proprietà di ogni bene (sistema socialista; in esso rientrano, per dirla con Ludwig von Mises, tanto il modello burocratico “di Lenin o russo o marxista”, quanto quello “di Hindenburg o tedesco o di Zwangswirtschaft” in cui la proprietà privata è solo nominalmente esistente); dall’altro lato, vige la proprietà privata dei mezzi di produzione (sistema capitalista o ad economia di mercato). Ciò che desta maggiore preoccupazione, secondo Zitelmann, non è tuttavia la nazionalizzazione delle imprese, come poteva capitare in passato, bensì la graduale limitazione del capitalismo attraverso l’aumento dei poteri di pianificazione e redistribuzione da parte dell’autorità statale, con particolare enfasi posta sull’azione pianificatrice che le banche centrali stanno operando: in altre parole quello che Mises definiva “interventismo” (e che, secondo Hayek, avrebbe condotto verso “La via della schiavitù”).

Scriveva Mises in “Socialismo”, che la crisi del capitalismo non era da considerarsi veramente tale, bensì come una crisi dell’interventismo che richiede sempre maggiori interventi per correggere i fallimenti degli interventi precedenti: “se il governo, posto davanti a questo fallimento del suo primo intervento, non è pronto ad annullare questa sua interferenza nel mercato e a ritornare a una economia libera, esso deve aggiungere a questa sua prima misura sempre di nuovo e sempre di più regolamentazioni e restrizioni. andando avanti passo dopo passo in questo modo alla fine esso perviene a un punto in cui è scomparsa qualsiasi libertà degli individui. È così che emerge un socialismo del tipo tedesco, la Zwangswirtschaft” che formalmente non sopprime la proprietà privata, ma che sostanzialmente la rende sempre meno concretamente effettiva.

L’autore, in buona misura, ricalca la tesi misesiana. Il caso forse più emblematico che Zitelmann riporta nel volume è il paragone tra Germania Est e Germania Ovest. Non a caso, il capitolo ad esso dedicato – il terzo – comincia così: “senza volerlo, la Germania è diventata per un certo periodo il luogo in cui si svolse un esperimento su larga scala per verificare se gli esseri umani hanno maggiori probabilità di prosperare in un’economia controllata dallo stato o nel libero mercato” (p. 89).

Com’è noto, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la Germania venne suddivisa in quattro zone di occupazione. Poco dopo la fondazione della Repubblica Federale Tedesca (bundesrepublik deutschland), quella controllata dai sovietici divenne nel 1949 la Repubblica Democratica Tedesca (deutsche demokratische republik). In essa vigeva una forma di economia di stampo socialista: espropriazioni e nazionalizzazioni erano la prassi. Tutte le imprese statali erano tenute a presentare innumerevoli rapporti dettagliati all’autorità di pianificazione economica, giacché, come spiegato da un’economista comunista citato dall’autore, Fritz Selbmann, “in un’economia pianificata ogni singolo dettaglio della produzione è deciso a tavolino; ogni processo economico, dall’approvvigionamento delle materie prime al trasporto, dalla lavorazione alla vendita, è pianificato in anticipo” (p. 92). Dunque, se in un’economia libera, il mercato ha la funzione di far incontrare domanda e offerta, in modo tale che si formino spontaneamente i prezzi, allocando così in maniera razionale le risorse scarse, in un’economia di piano, per contro, i prezzi e la produzione sono stabiliti aprioristicamente secondo uno schema ingegneristico.

Al netto dell’ingente numero di persone che, prima della costruzione del Muro, fuggirono verso l’Ovest, il fallimento dell’economia di piano di marca sovietica era evidente: nel 1960, ricorda l’autore, l’offerta di beni era drasticamente scarsa e, senza l’aiuto dell’URSS, il sistema sarebbe collassato. Nel momento in cui viene soppresso il meccanismo di mercato, la scarsità di beni (e la pessima qualità di quelli a disposizione) segue in modo quasi automatico.

Allo stesso modo, il divario tecnologico tra DDR e il mondo occidentale era siderale: pur avendo investito tra il 1986 e il 1989 quattordici miliardi in marchi orientali per un programma di microelettronica, Honecker dovette constatare che il costo di produzione per un chip di memoria da 256 kilobit era in patria di 534 marchi orientali, mentre la stessa componente costava soli quattro o cinque marchi sul mercato globale (p. 105).

In modo antitetico, pur dopo un’iniziale fase poco favorevole al mercato, a seguito dell’elezione di Konrad Adenauer a cancelliere nel 1949 la Germania Ovest conobbe una svolta orientata all’economia di mercato. Il principale artefice di questo radicale cambiamento fu Ludwig Erhard, ministro dell’economia tra il 1949 e il 1963 e successore di Adenauer alla Cancelleria tra il 1963 e il 1966. Secondo Erhard, l’economia di mercato costituiva il motore del benessere sociale in sé e le misure da egli adottate in tal senso furono la precondizione per il cosiddetto Wirtschaftswunder, il miracolo economico tedesco. Come ricorda Zitelmann, infatti, tra il 1948 e il 1960 il PIL pro capite aumentò mediamente di più del 9% annuo e continuò a crescere del 3,5% tra il 1961 e il 1973 (p. 113).

L’ideale erhardiano è ben riassunto in un passo contenuto in suo volume pubblicato nel 1957, Benessere per tutti: “l’ideale che ho in mente si basa sulla forza dell’individuo che afferma: voglio mettermi alla prova con i mezzi che possiedo, voglio assumermi i rischi della vita, voglio essere responsabile del mio destino. Sta a te, Stato, assicurarti che io sia in grado di farlo”. L’appello dell’individuo allo Stato non deve essere “vieni in mio aiuto, proteggimi e aiutami”, ma il contrario: “stai fuori dai miei affari, ma lasciami la libertà e i miei guadagni, in modo che io possa plasmare la mia esistenza, il mio destino e quello della mia famiglia” (p. 115). Una visione, come nota l’autore, che non si discostò molto da quella fatta propria da Margaret Thatcher nel regno Unito e da Ronald Reagan negli Stati Uniti (p. 167).

Insomma, pur se il capitalismo ha creato le condizioni per un’esistenza complessivamente più prospera, come è possibile che esso continui a non godere di buona reputazione? Considerate le evidenze storico-empiriche, le quali dimostrano una superiorità di siffatto modello rispetto a modelli di pianificazione ed esacerbato interventismo, come si spiega che l’anticapitalismo si dimostri essere ancora così abbacinante, in modo particolare tra gli intellettuali?

Le spiegazioni possono essere molteplici. Joseph Schumpeter, ad esempio, in Capitalismo, socialismo e democrazia sostenne che l’aumento della percentuale di coloro che hanno un’istruzione superiore crea un numero di laureati che sono in eccedenza rispetto alla domanda di impiegati ma che sono, al contempo, anche troppo qualificati per i lavori manuali. Lenin, Kautsky e Hayek, ricorda curiosamente Zitelmann (p. 262), si trovano d’accordo sul fatto che il socialismo non è mai stato un movimento spontaneo, bensì è frutto di un’elaborazione cosciente degli intellettuali. Al contrario, il capitalismo è il risultato spontaneamente emerso dall’interazione di individui: impiegando la terminologia hayekiana, il primo è una taxis e il secondo un cosmos. Inoltre, può essere anche affermato che gli intellettuali, tendenzialmente dotati di un alto livello di istruzione, si trovano mossi da una certa invidia livorosa nei confronti degli imprenditori che hanno successo: i primi sono caratterizzati da alta eticità, i secondi sono dediti al mero guadagno e mirano esclusivamente ad arricchirsi. Ma se tutti queste spiegazioni hanno una loro certa fondatezza, Zitelmann si muove in una direzione parzialmente differente: “l’ostilità di molti intellettuali verso il capitalismo [è] guidata dall’ingiustificata supremazia che essi assegnano alla propria definizione di conoscenza o di acquisizione della conoscenza, la quale li rende ciechi di fronte all’esistenza di altri tipi di conoscenza o di altri metodi di acquisizione del sapere che sono molto più rilevanti per il successo economico” (p. 271-272).

Si può dire, infatti, che esistano almeno due tipi di conoscenza: la prima origina da un “apprendimento esplicito”, frutto dello studio sui libri; la seconda è, al contrario, acquisita tramite un “apprendimento implicito”, ovvero, ad esempio, da un imprenditore che, sul campo, capisce cosa, come e quanto produrre di una merce o di un bene (p. 272). Michael Oakeshott, in un importante saggio pubblicato nel 1947, “Rationalism in Politics”, argomentava che la conoscenza coinvolta in qualunque attività umana è di due tipi: la prima è di tipo tecnico e può essere esplicitamente formulata e codificata; la seconda, invece, è di tipo pratico ed esiste solo nell’uso senza potere essere formulata mediante regole e precetti. È precisamente questo secondo tipo di conoscenza che è impiegata nel mercato ed è proprio questa che rimane ignota al pianificatore centralizzato (emblema, quest’ultimo, della hybris tipica del “razionalismo in politica” di cui parlò il filosofo politico britannico).

Come scrisse Hayek in un saggio del 1945 “si può ammettere che, per quanto riguarda la conoscenza scientifica, un corpo di esperti opportunamente scelto si trovi forse nella posizione migliore per controllare la conoscenza disponibile […] ma una breve riflessione può mostrare che esiste senza dubbio una conoscenza molto importante, ma non organizzata, che non può essere considerata scientifica, perché non è conoscenza di leggi generali: la conoscenza delle circostanze particolari di tempo e di luogo. Rispetto a questo tipo di conoscenza, ogni individuo si trova praticamente in vantaggio su tutti gli altri, per la ragione che egli possiede informazioni uniche” (“L’uso della conoscenza nella società” in Competizione e conoscenza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, p. 60).

Solamente attraverso il meccanismo di esplorazione dell’ignoto e correzione degli errori, tipico dell’economia di mercato, si possono creare le condizioni del benessere materiale: “il compito singolare dell’economia è di mostrare agli uomini quanto poco essi realmente sanno su ciò che credono di poter pianificare” (F.A. von Hayek, La presunzione fatale. Gli errori del socialismo, Milano, Rusconi, 1997, p. 134). La guerra al capitalismo promossa da intellettuali e socialisti di ogni tipo, dimostra Zitelmann, è il miglior modo per creare un mondo nuovamente immiserito.

Rainer Zitelmann, La forza del capitalismo, Torino, IBL Libri, 2020, pp. 348, euro 20

da Il Politico, a. LXXXV, n. 2, 2020