Il Pensiero Economico Italiano, a. IX, n. 1, 2001
a cura di
Enrico
ColombattoUniversità di Torino
Dipartimento di Scienze Economiche e Finanziarie “G. Prato”e
Raimondo
CubedduUniversità di Pisa
Dipartimento di Scienze della PoliticaSergio Ricossa nasce a Torino il 6 giugno 1927. Presso l’Università di Torino, Facoltà di economia e commercio, si laurea nel 1949, con il massimo dei voti; discutendo una tesi di economia politica: “Il concetto di probabilità in economia. Subito dopo la laurea è nominato assistente volontario, quindi assistente incaricato e, a partire dal 1955, assistente di ruolo alla cattedra di economia politica di detta Facoltà. Sempre nel 1955 consegue la libera docenza in statistica economica. Nel 1961 è professore incaricato di politica economica e finanziaria. Dal 1962 l'incarico è esteso a economia politica I e II corso. Nel 1963 è secondo ternato nel concorso per la cattedra di politica economica e finanziaria nell’Università di Catania; resta però a Torino dove è chiamato alla medesima cattedra dalla Facoltà di Economia e Commercio a partire dall’1 novembre 1964. Dal 1978 è socio corrispondente e dal 1988 socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Attualmente è professore fuori ruolo, e decano.
Tra le sue principali pubblicazioni scientifiche ricordiamo: La programmazione lineare nell’industria
(coautori B. Giardina e A. Longo), Unione Industriale, Torino 1954; Storia della fatica
, Armando, Roma 1974; Dizionario di economia
, Utet, Torino l982; L’economia in cento grafici
, Mondadori, Milano 1984; La fine dell’economia
, SugarCo, Milano 1985; Aspetti attuali della teoria economica neoclassica
, Utet, Torino 1991 (Le date si riferiscono alle prime edizioni italiane).
L’intervista si è svolta a Torino il 12 giugno 2000.
Intervista a Sergio RicossaAnzitutto ti ringraziamo per la disponibilità a farti intervistare per la rivista II pensiero economico italiano
. Potremmo iniziare con una domanda rituale: professor Ricossa, puoi parlarci degli anni e del modo in cui avvenne la tua formazione di economista?
È stata una carriera in gran parte casuale, nel senso che non ho mai pensato di fare il professore universitario. Non sapevo nemmeno che cosa fosse una carriera di tal genere. Bisogna, a questo proposito, che parli delle origini della mia famiglia. Mi ritengo molto fortunato perché sin da bambino ho avuto occasione di conoscere dal di dentro il ceto contadino e il ceto operaio. Mio nonno paterno era un contadino; mio padre, pure lui, era un contadino, che si trasformò in operaio e si trasferì dal Monferrato a Torino allorché la Fiat, tra le due guerre, assunse molti lavoratori. Tutto questo mi è stato in seguito utilissimo come economista, perché ho conosciuto per esperienza diretta i famosi proletari di cui molti borghesi parlano solo per sentito dire. Quanto alle scuole che frequentai, la famiglia scelse quelle che davano il più presto possibile un titolo utile a trovare un impiego, nel caso in cui avessi dovuto abbandonare gli studi per mancanza di soldi. Divenni così prima computista e poi ragioniere. Allora i ragionieri potevano accedere a un’unica Facoltà universitaria, quella di Economia e Commercio. Mi iscrissi ma non la frequentai, fui studente lavoratore. La seconda guerra mondiale aveva completamente distrutto i già scarsi risparmi di mia madre, che si occupava delle finanze domestiche per delega di mio padre. Diedi in fretta gli esami, trovai le materie facili e poco interessanti. La preferenza per l’economia politica mi era già venuta nella scuola secondaria superiore, dove ebbi la fortuna di incontrare Francesco Palazzi, un professore che non ebbe la gloria che meritava e che insegnava da economista liberale, liberista e libertino.
Dici così perché il termine “libertario” non si usava ancora?Già, “libertario” non era di moda. Il professor Palazzi faceva per passione molto più di quello che era suo dovere fare. Dopo la lezione lo accompagnavamo a casa. Durante la passeggiata egli continuava a chiacchierare con noi. Eravamo quattro o cinque a seguirlo con le orecchie bene aperte.
Nella Facoltà di Economia chi avevi come docente di economia teorica?Arrigo Bordin, uno studioso nel solco di Walras-Pareto e di estrema intelligenza, ma sciupata perché poi fu distratto da altre cose (divenne presidente o amministratore delegato, se ricordo bene, della Cogne, allora società pubblica produttrice di acciai).
Che cosa leggevi a quei tempi, oltre ai testi universitari? E quali erano i testi universitari adottati a Torino?Il testo principale di Bordin era
Statica economica,
1 aridissimo, pubblicato nel 1944 e ancora in adozione nel 1963 quando Bordin morì. Egli tuttavia mi autorizzò a occuparmi di qualunque argomento di scienza economica mi piacesse. Mi laureai con lui nel 1949, dopo quattro anni di studi, con una tesi di economia politica su “Il concetto di probabilità”. Poiché ottenni il massimo dei voti, con mia sorpresa Bordin mi chiese di fare il suo assistente volontario (allora c’era questa categoria utilissima ai giovani, che poi i sindacati fecero abolire perché non era retribuita). Mi parve di toccare il cielo con un dito, e dal 1949 al 1953 fui assistente volontario, poi assistente incaricato dal 1953 al 1955, assistente di ruolo dal 1955. Divenuto dipendente dello Stato, mi dimisi dal posto di lavoro che mi aveva dato il pane in precedenza (rimasi consulente): l’ufficio studi dell’Unione Industriale di Torino. Quell’ufficio lo avevo costituito io e in quell’ufficio mi lasciavano fare gli studi che volevo: economici, statistici, econometrici, politici, ecc.
Chi era allora il presidente dell’Unione Industriale?L’uomo determinante era il direttore, Augusto Bargoni. Liberale pure lui, veniva dalla Camera di Commercio. Nell’immediato secondo dopoguerra, nella distribuzione dei vari enti tra i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale ai liberali era toccata la Camera di Commercio, che Bargoni diresse prima di passare all’Unione Industriale e portarmi con sé. Bargoni, dopo Palazzi e con Bordin, fu la terza persona decisiva per la mia carriera.
Tu allora ti consideravi già un liberale?Credo di essere diventato liberale, senza saperlo, fin da bambino quando leggevo
Ventimila leghe sotto i mari di Verne, e tifavo per il capitano Nemo. Inoltre Palazzi mi aveva introdotto a Voltaire. Poi arrivarono i libri di economia di Einaudi (Luigi!), anche se non fu mai mio professore.
A parte Einaudi, quali erano i grandi economisti, o le opere importanti, di cui avevi già fatto conoscenza?Ero diviso tra gli economisti quantitativi e quelli che ‘scrivevano bene’. Nel 1966 pubblicai una breve antologia di economisti che, secondo me, scrivevano bene. Il titolo fu
L’economista ispirato,
2 e c’erano: Smith, Bastiat, Cattaneo, Marx (quello del
Manifesto), Ferrara, Pantaleoni, Pareto, Einaudi, Schumpeter, Robertson, Keynes, Jannaccone, Bresciani Turroni, Lenti. Ero di bocca, buona, così come lo saranno nel 1994 Bocciarelli e Ciocca, che compileranno un’antologia analoga intitolata
Scrittori italiani di economia3 in cui metteranno perfino un pezzo della mia prosa.
Quali erano i rapporti tra gli economisti della tua Facoltà e quelli di Giurisprudenza? Da studente hai avuto modo di avvicinarti al Laboratorio “Cognetti De Martiis e alla tradizione economica torinese?No, assolutamente no. Dal momento che lavoravo, non frequentavo nemmeno la Facoltà di Economia. Inoltre quelli là avevo l’impressione che guardassero la mia Facoltà dall’alto in basso, prima della guerra non era una vera Facoltà universitaria, era solo una misera Scuola superiore di commercio.
Così non conoscesti Einaudi?No, Einaudi era già a Roma a fare il governatore della Banca d’Italia. Vidi Einaudi per la prima volta nel 1961, quando la Mont Pèlerin Society si riunì a Torino presso l’Unione Industriale. Fu il suo ultimo anno di vita, ma ebbe ancora la forza di invitarci a Dogliani e di farci visitare la sua favolosa biblioteca.
Quindi, si può dire che la tua formazione accademica è avvenuta a Torino, ma che non ha avuto a che fare con la Torino azionista e “liberal”.
Con quella Torino, proprio no. Per me, i ‘liberal’ non erano e non sono liberali. Quelli là non mi avrebbero mai portato in cattedra. E infatti ci andai per la stima dei milanesi (Libero Lenti, Ferdinando di Fenizio, soprattutto), non dei torinesi; tanto più che Bordin morì nel 1963, proprio quando mi accingevo a tentare l’avventura del concorso. Un altro ostacolo che incontrai derivò dal fatto che nel 1955 avevo vinto la libera docenza in statistica economica.
4 Ai concorsi di economia rischiavo che i commissari mi dicessero. Lei è bravo, ma è uno statistico, non un economista”; e viceversa ai concorsi di statistica. Inoltre dovevo nascondere la mia collaborazione con l’Unione Industriale, organo periferico della malvagia Confindustria.
Di che cosa ti occupasti all’Unione Industriale?II modello Walras-Pareto mi pareva francamente poco adatto per lavorarci sopra in una Unione Industriale. Per fortuna era arrivata dall’America una novità misteriosa ma più promettente anche per le applicazioni pratiche: la programmazione lineare. Esigeva però una matematica completamente nuova, che solo da poco era stata inventata in Unione Sovietica e negli Stati Uniti. Al mio fianco avevo un matematico bravissimo, Antonio Longo: riuscimmo a capire! Ferdinando di Fenizio fu il primo ad accorgersi che a Torino vi erano dei giovani che studiavano cose nuove. Ci aprì la sua rivista,
L’industria,
5 e l’Ufficio studi della Montecatini, che dirigeva. Con lui andammo dagli ingegneri della Montecatini per tentare una applicazione pratica della programmazione lineare. Disastro: gli ingegneri risero di noi, sostenendo che il nostro problema matematico non ammetteva soluzioni. Era effettivamente così fino a qualche anno prima. Ma gli ingegneri non ammettevano che dopo i loro studi al Politecnico il mondo fosse andato avanti. Poi provammo con le Ferrovie dello Stato e proponemmo un problema di dislocazione territoriale dei magazzini delle parti di ricambio. “Molto interessante - ci dissero -, però dopo aver trovato la dislocazione ottima i sindacati non ci lasciano spostare neanche un lavoratore. I vostri calcoli sarebbero inutili”. Per fortuna, il presidente dell’Unione Industriale di Torino, Ermanno Gurgo Salice, aveva sposato la sorella di Riccardo Gualino ed era a capo della Rumianca, una industria chimica fondata dallo stesso Gualino. La Rumianca ci fu messa a disposizione per i nostri studi e divenne la sede della prima applicazione italiana della programmazione lineare. Pubblicammo i risultati nel 1954.
6 Fra i più soddisfatti ci fu di Fenizio, che si vendicava degli ingegneri della Montecatini. Poi passammo ad altre applicazioni, altre forme di ricerca operativa e di econometria.
7Quali erano i tuoi contatti con gli studiosi che allora in Italia si occupavano di econometria?Alla fine degli anni cinquanta, presso le Edizioni Scientifiche Einaudi (poi Edizioni Boringhieri), iniziammo la pubblicazione di una serie di manualetti di economia quantitativa a uso prevalente delle imprese.
8 L’iniziativa sorse sotto gli auspici dell’Istituto Centrale di Statistica a Roma, dell’Istituto Superiore per la Direzione Aziendale di Roma, del Centro per la Statistica Aziendale di Firenze, dell’Unione Industriale di Torino e della FIAT. Ma la fonte delle novità scientifiche restava l’America, dove avevo lavorato tre mesi con il Bureau of Labor Statistics a Washington. La prima cosa che imparai fu che le statistiche erano tutte sbagliate se non volutamente false. Benedetto Barberi, direttore generale dell’ISTAT, ci deliziava col racconto delle “bugie” politiche che il suo Istituto pubblicava. Cominciai a perdere la fede nell'economia quantitativa, anche se contribuii a fondare l’AIRO, Associazione italiana di ricerca operativa.
9A Torino in quegli anni c’era il Centro di studi metodologici, che era animato fra gli altri da Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Bruno Leoni10 e, fra i matematici, Ludovico Geymonat ed Eugenio Frola.
Sì, mi invitavano di tanto in tanto. Un altro matematico cui potevo ricorrere era Pietro Buzano del Politecnico di Torino. Ma, ripeto, fu Milano, non Torino, a spingermi verso la cattedra.
Come ci arrivasti?Nel 1963 l’Università di Catania bandì un concorso di politica economica e finanziaria. Mi presentai. I commissari eletti furono Francesco Vito (presidente), Libero Lenti, Ferdinando di Fenizio, Federico Caffè e Innocenzo Gasparini, che nominarono questa terna: I, Luigi Spaventa; II, me stesso; III, Veniero Del Punta. La nomina fu a maggioranza, tre voti contro due, e mi procurò sentimenti di riconoscenza e di terrore. Ero terrorizzato dall’idea di dover andare a Catania. Gli amici di laggiù mi dicevano: “Qui è bellissimo, vivi a Taormina e vieni una o due volte al mese a fare lezione”. Io non volevo lasciare Torino un po’ per ragioni di famiglia (mi ero appena sposato) e un po’ perché all’Unione Industriale mi trovavo bene: soldi pochi, ma studi liberi per una carriera accademica ‘sportiva’, senza l’assillo di fare presto. Persi un anno di anzianità di carriera, ma rimasi a Torino. Tuttavia il carico di lavoro aumentò notevolmente: Bordin non c’era più e io insegnavo Politica economica e per incarico Economia I e II, dirigevo l’Istituto d’Economia “Giuseppe Prato” e la Biblioteca di Facoltà, ero nel consiglio d’amministrazione dell’Università. La Corte dei Conti mise sotto processo l’intero consiglio d’amministrazione e io fui coinvolto in una bega giuridica che durò vent’anni. Al termine fummo tutti assolti, ma a nostro carico furono le ingenti spese per gli avvocati di difesa. La nostra colpa era stata questa: quando avevamo dubbi sull’interpretazione di una legge o di una circolare, ci affidavamo al parere del rettore, Mario Allara, un giurista insigne. Sennonché Allara era un teorico del diritto, e tutti i suoi pareri vennero giudicati errati dalla Corte dei Conti. Egli non vide la fine del processo, morì prima di crepacuore, con la complicità dei disordini studenteschi iniziati nel 1967 e dei relativi insulti da lui ricevuti.
Si può dire che i tuoi interessi scientifici continuarono a essere prevalentemente di carattere applicativo? E inoltre, quali testi usavi a lezione?Sì, ma mi spostai dalle applicazioni aziendali verso quelle macroeconomiche, ispirandomi più a Tinbergen che a Keynes.
11 Nel 1965 ottenni che l’Università di Torino festeggiasse Tinbergen con una laurea
ad honorem. Dal 1963 adottavo fra i libri di testo
Fondamenti dei modelli macroeconomici12 che avevo scritto ‘copiando’ da Tinbergen,
Economie Policy: Principles and Design.
13 La conoscenza personale di Tinbergen, i risultati che egli otterrà come pianificatore nel mondo, la mia pur minima esperienza di pianificatore in Italia (Commissione Papi, gruppo econometrico; Comitato nazionale per la programmazione, Gruppo di lavoro Parenti
14) e la frequentazione degli amici della Mont Pèlerin Society (Röpke, Hayek, Milton Friedman, Buchanan e così via) mi permisero a poco a poco di toccare con mano che la scienza economica, ammesso che esista una scienza economica, non serviva quasi a nulla nella pratica politica. A sua volta la pratica politica si poteva meglio esemplificare con la storia economica anziché insegnare con la teoria economica. A conclusioni quasi egualmente pessimistiche ero già giunto con la microeconomia dell’impresa. La programmazione lineare, per esempio, era un gioiello dell’intelligenza, ma serviva soltanto a risolvere il problema banale di rendere ottimo l’uso di date risorse in dati processi produttivi. Il vero problema era un altro: inventare nuove risorse e nuovi processi produttivi migliori dei precedenti. E l'innovazione era un procedimento di scoperta per il quale non esistevano formule di sicuro successo. Una volta chiesi a un collega, bravo matematico: “Quando ti sei sposato, hai applicato la teoria delle scelte razionali nell’incertezza?” Mi rispose: “Certo che no, e se anche l'avessi fatto non avrebbe funzionato, perché ho divorziato”. Queste cose bisogna raccontarle anche agli studenti.
Si può fare un confronto tra gli studenti dei tuoi primi anni di insegnamento e i ragazzi d’oggi? Come si possono valutare quarant' anni di insegnamento dell’economia?Il bilancio fornisce un saldo positivo infimo. I docenti sono forse meglio preparati, ma insegnano una economia in gran parte insensata. Lo feci anch’io per anni, perciò ho chiesto scusa agli studenti in un pamphlet del 1996,
Maledetti economisti.
15 Ovviamente gli studenti hanno la loro parte di responsabilità con le follie degli anni settanta, la 'contestazione’. Dovevano contestare, ma sbagliarono il motivo.
È tutta colpa degli anglosassoni, dai quali abbiamo sostanzialmente copiato negli ultimi trent’anni, oppure ci abbiamo messo anche del nostro?Un personaggio-chiave è italo-inglese: Piero Sraffa, l’amico di Gramsci e di Keynes. Nel 1960 pubblica, simultaneamente a Cambridge e a Torino,
Produzione di merci a mezzo di merci.
16 Il libro, quasi incomprensibile, viene interpretato come la dimostrazione matematica definitiva che l’economia neoclassica marginalistica è falsa e chi l’insegna è un falsario politicamente di ‘destra’, un corruttore di giovani. Questa interpretazione è italo-inglese più che americana. Ma gli americani non riescono a dimostrare esaurientemente che chi sbaglia è Sraffa. Non ci riescono subito nemmeno i neoclassici marginatati europei, nemmeno quelli Austriaci (che pure sarebbero i più adatti). Hayek semplicemente ignora Sraffa, col quale tuttavia aveva duellato, ma prima della guerra. Dopo la guerra, saggiamente, Hayek non è più un economista matematico, è un filosofo.
17 Probabilmente ritiene una perdita di tempo leggere
Produzione di merci a mezzo di merci. Io invece ci casco, mi sento toccato dalle accuse degli sraffiani e sono pronto a diventare sraffiano anch’io se il libro enigmatico mi convince. Ci metto (in un certo senso spreco) quasi vent’anni a svelare l'enigma.
18 La matematica della programmazione lineare mi aiuta, serve a capire Sraffa, e so che è una matematica nuova eppure ancor sempre marginalistica. Sraffa non lo sa, crede di avere ucciso il marginalismo e al contrario lo ha rinforzato. Sraffa è egli medesimo un marginalista di ‘destra’ (se vogliamo usare queste stupide etichette). Di certo ha ucciso per sempre la teoria del valore di Marx, non il marginalismo.
Ci fu una polemica con Sraffa?No, Sraffa non rispose. Ci fu una polemica con gli sraffiani, alcuni dei quali rimasero fedeli al maestro. Per esempio non riuscii mai a convincere Sylos Labini, col quale scambiai molte lettere, che Sraffa era un marginalista convinto dì essere antimarginalista. Mandai i miei risultati a Frank Hahn dell’Università di Cambridge: li approvò in pieno. Alle mie stesse conclusioni, ma per altra via, giunse in Italia Claudio Napoleoni, le cui idee politiche non erano le mie. Molti sraffiani non ammisero mai la sconfitta, ma forse ne erano coscienti. Quasi di colpo smisero di inneggiare al loro leader.
Schumpeter scrisse che la scuola economica italiana alla fine dell’Ottocento non era seconda a nessun’altra. In seguito questa scuola si è spenta. Secondo te per quale motivo?Consideriamo il grande Pareto. Un bel momento si stufa di fare l’economista (come lo capisco!) e scrive il
Trattato di sociologia generale. E poi, forse che Pareto appartiene alla scuola italiana? Ma no, appartiene alla scuola di Losanna ed è sepolto a Céligny in Svizzera. Pareto scappa dall’Italia e non ci ritorna. Le ultime generazioni di economisti italiani, invece, vanno a Cambridge come i musulmani vanno alla Mecca, quindi tornano in Italia e si sentono santificati. Ho una lettera in cui Federico Caffè mi scrive:
Non quando li prende,
ma quando li rende
la Cambridge offende.
Che cosa pensi di avere imparato dalla frequentazione di esponenti della Mont Pèlerin Society come Hayek?Frequentazione discreta, ma sufficiente per capire che Hayek ripete la traiettoria di Pareto. Un bel momento si stufa dei giochini degli economisti che sono soltanto economisti, e prende quota, fa il filosofo. Io chiudo con l’economia per gli economisti pubblicando nel 1991
Aspetti attuali della teoria economica neoclassica.
19 Il libro cade nel vuoto, ma in realtà gli argomenti che tratta non interessano più neanche a me. Torno a vecchi amori bistrattati come la storia economica (
Storia della fatica;
20 L'economia in cento grafici21) e riprendo le considerazioni sul perfettismo e sull’imperfettismo che avevo iniziato nel 1985 (
La fine dell’economia22). Naturalmente sono un imperfettista, così come lo è Hayek. Travaso, queste idee in alcune opere divulgative (il
Dizionario di economia23 e
Impariamo l'economia24). Divulgo una economia che non è quella dei miei colleghi: non me ne importa, basta con le polemiche. Prendo in giro i colleghi e me stesso col già citato pamphlet
Maledetti economisti (sottotitolo:
Le idiozie di una scienza inesistente). Mi dimetto dalla Società italiana degli economisti prima che mi caccino.
Vuoi anche dire che smettesti di tenere lezioni di politica economica in senso tradizionale?Sì, cercavo dispiegare agli studenti che vi sono tanti bei concetti senza senso: bene comune, prezzo equo ecc. Per contro vi sono cose che magari non piacciono ma sono inevitabili: per esempio il profitto. Come differenza tra ricavi e costi a tempi diversi, il profitto è sempre esistito perfino nell’Unione Sovietica. Il profitto o la perdita, ovviamente. Vi erano più capitalisti in Unione Sovietica che negli Stati Uniti, perché tutti in Unione Sovietica erano costretti a fare i capitalisti, cioè ad anticipare i costi; negli Stati Uniti lo faceva solo chi voleva e poteva. La confusione delle idee nasce già a livello terminologico.
Quali risultati ottenesti?I soliti. La natura offre una percentuale di studenti intelligenti, un’altra di studenti disinteressati, un altra ancora di studenti stupidi. Alla fine, agli esami, mi contentavo di controllare che sapessero scrivere un italiano non troppo scorretto. Ma poiché viviamo in Italia, non mi fu difficile far capire almeno questo: che lo Stato non esiste, è una finzione giuridica, vi sono politici che agiscono in nome e per conto dello Stato, e tali politici non sono né migliori né peggiori di noi, in media, sono però più potenti di noi cittadini qualunque e più soggetti a tentazioni, dato che maneggiano miliardi di denaro pubblico.
Mi sembra che si cominci a respirare un’aria nuova. Nel 1983 il succinto libro curato da Colombatto, Tutti proprietari
,25 ebbe poco impatto. Oggi però molti studiosi che non sono mai stati hayekiani (in passato forse sono stati marxisti, keynesiani, sraffiani) sentono il bisogno di confrontarsi, magari criticamente, con Coase, Demsetz, Hayek.
È vero, ma chi ha aperto la strada a Hayek è stato in realtà Popper, lui che dopo tanto ostracismo diventa all’improvviso un filosofo alla moda.
26
...
E si porta appresso Hayek. È un percorso su cui posso [R.C.] testimoniare, perché anch’io sono partito da Popper e da lui sono passato agli ‘Austriaci’. Lo stesso si può dire del gruppo Luiss, come Dario Antiseri e Lorenzo Infantino.
Mi piace ricordare che Popper non fu un economista e non disse assurdità del tipo: “Il liberismo è il mercato di concorrenza perfetta in equilibrio”. I fautori della concorrenza perfetta dimenticano che, non essendoci nulla di perfetto al mondo, il loro mercato fallisce di continuo e non è mai in equilibrio. Né il libero mercato è l’equilibrio: è all’opposto favorire l’innovazione, lo squilibrio, la rottura di eventuali equilibri preesistenti. Non devo difendere il mercato com’è difeso qualche volta perfino nella Pèlerin Society.
Se dovessimo riassumere con uno slogan l’economia ‘ricossiana’, potremmo dire, seguendo La fine dell’economia
, che è ‘l'economia dell’imperfezione”? E ancora: in questi ultimi tempi (si pensi al libriccino curato da Alberto Mingardi, dal titolo Da liberale a libertario. Cronache di una conversione
27) hai fatto un salto dal liberalismo classico al libertarismo o all’anarchismo individualista.
Sì, la mia è una filosofia dell’imperfezione. Quanto al libertarianismo, è un’utopia che adotto per ringiovanire e perché spero piaccia ai giovani. A loro favore ho fatto troppo poco.
Inoltre hai fatto molto anche come giornalista.
Circa il giornalismo, trovo tipi, come Giovanni Sartori dire: “Ma quando ti decidi a scrivere su un quotidiano che si possa leggere?” Forse mi rimproverano la fedeltà al
Giornale, rifiuto di passare al
Corriere della Sera.
L’importante pensiamo sia essere contenti.
Mi sono divertito parecchio.
Note1. Principato, Milano-Napoli.
2. Dell’Albero, Torino.
3. Laterza, Roma-Bari 1994.
4. Cfr. S. Ricossa,
Applicazioni elementari della statistica alla ricerca commerciale, Einaudi, Torino 1957.
5. Tra i lavori pubblicati in quel periodo da Ricossa su
L’industria si ricordano; “Variazioni congiunturali di questo dopoguerra alla luce delle integrazioni salariali nell’industria torinese” (2, 1953, pp. 308-18); “La programmazione lineare e il metodo del simplesso” (3, 1953, pp. 401-35); “Note comparative su alcuni modelli della produzione” (2, 1954, pp. 238-43); “Sui modelli lineari in economia” (1, 1955, pp. 77-104); “Congiuntura e cassa integrazione” (3, 1961, 432-40); “La Programmazione lineare applicata ad un problema di alimentazione” (4, 1961, pp. 586-9); “Attorno ai coefficienti di capitale in Italia” (3, 1962, pp. 337-46).
6. Cfr.
La programmazione lineare nell’industria, scritti presentati dal Professor Arrigo Bordin dell’Università di Torino con una introduzione di Augusto Bargoni e curati da Basilio Giardina, Antonio Longo e Sergio Ricossa, Unione Industriale, Torino 1954.
7. Cfr. S. Ricossa,
Programmazione lineare, Boringhieri, Torino 1961.
8. Si tratta della Serie di statistica, teoria e applicazioni. Tra i volumi pubblicati nella serie, oltre a S. Ricossa,
Applicazioni elementari, cit.: B. Barberi,
Rilevazioni statistiche, 1957; M. De Vergottini,
Medie, variabili, rapporti 1957; E. Morra,
L’impiego della meccanografia in statistica, 1957; B. Barberi,
Elementi di statistica economica, 1958; V. Cao-Pinna,
Analisi delle interdipendenze settoriali di un sistema economico, 1958; A. Del Chiaro,
Tavole di eliminazione, 1958; A. Giannone,
Il sistema dei conti economici nazionali, 1958; L. Livi,
Previsioni economiche, 1958; P. Bandettini,
I numeri indici, 1959; E. Gradara,
La rappresentazione grafica dei fenomeni statistici, 1959; G. Pompilj, G. Dall’Aglio,
Piano degli esperimenti, 1959; T. Salvemini,
Regressione e correlazione, 1959.
9. L’AIRO (Associazione italiana di ricerca operativa) è stata fondata il 20 aprile 1961 da un gruppo di studiosi, tecnici e dirigenti industriali. Assieme ad altre 28 associazioni nazionali partecipa oggi all’Euro (Association of European Operational Research Societies), fondata nel 1975. Organo ufficiale dell’associazione è la rivista Ricerca operativa. Maggiori informazioni possono essere ricavate dal sito
http://www.airo.org/.
10. Cfr. di recente B. Leoni,
La sovranità del consumatore, prefazione di S. Ricossa, Ideazione, Roma 1997.
11. Risale a quel periodo l’antologia J. M. Keynes,
Scritti politici, a cura di S. Ricossa, Sansoni, Firenze 1966 (Biblioteca del Centro di ricerca e documentazione L. Einaudi). Da ricordare anche, in relazione all’attività di docente universitario di quel periodo, S. Ricossa,
Documenti di politica economica italiana, Giappichelli, Torino 1965; S. Ricossa, O. Castellino,
Guida alle letture di economica politica, Giappichelli, Torino 1966.
12. Giappichelli, Torino 1963.
13. North-Holland, Amsterdam 1956.
14. Per notizie su questi organi cfr. F. Di Fenizio,
La programmazione economica (1946-1962), Utet, Torino 1965.
15. Rizzoli, Milano.
16. P. Sraffa,
Production of Commodities by means of Commodities, Cambridge University Press, Cambridge 1960; ed. it. Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, Torino 1960.
17. Cfr. il recente F. A. von Hayek,
La società libera, introduzione di S. Ricossa, Seam, Formello 1998.
18. Cfr. S. Ricossa,
Teoria unificata del valore economico, Giappichelli, Torino 1981.
19. Biblioteca dell’economista, ottava serie, Utet, Torino.
20. S. Ricossa,
Storia della fatica. Quanto come e dove si viveva, Armando, Roma 1974. Tra gli altri lavori di storia economica si ricorda: Id. (a cura di);
Archeologia industriale e dintorni, U. Allemandi, Torino 1993; S. Ricossa, E. Tuccimei,
La Banca d’Italia e il risanamento post-bellico; 1945-1948, Laterza, Roma-Bari 1992 (Collana storica della Banca d’Italia).
21. Mondadori, Milano 1984.
22. S. Ricossa,
La fine dell'economia. Saggio sulla perfezione, SugarCo, Milano 1985. Ma Cfr. già S. Ricossa, F. Barone,
L’età tecnologica, Rizzoli, Milano, 1974.
23. Utet, Torino 1982; seconda edizione accresciuta 1988; terza edizione 1998; traduzione in spagnolo:
Diccionario de economìa, Siglo Ventiuno Editores, Madrid 1990.
24. Rizzoli, Milano 1988, varie ristampe.
25. E. Colombatto (a cura di),
Tutti proprietari. La nuova scuola di property rights, Le Monnier, Firenze 1980 (Quaderni di Biblioteca della libertà).
26. Merita ricordare che agli economisti austriaci Ricossa ha dedicato una certa attenzione, in particolare con introduzioni ad antologie e traduzioni italiane. Cfr. C. Menger,
Gli errori dello storicismo nell’economia politica tedesca, a cura di D. Antiseri, premessa di S. Ricossa, Rusconi, Milano 1991;
Governi distruttori di ricchezza. La teoria austriaca del ciclo economico, scritti di L. von Mises et al., prefazione di S. Ricossa, Armando, Roma 1997.
27. Facco, Treviglio 1999.