Alberto Mingardi
Rassegna stampa
26 ottobre 2021
Dopo il caso Gkn: sul lavoro le regole (dimenticate) ci sono
Le norme che governano i rapporti fra aziende e lavoratori non escludono i nuovi mestieri. Possono essere anacronistiche, ma non sono state cancellate
Innanzi alla sentenza che condanna la Gkn per aver licenziato i lavoratori dello stabilimento di Campi Bisenzio con un'email, il ministro Giorgetti ha detto un'ovvietà ma di quelle che avremmo bisogno di sentire più spesso.
L'Italia in cui viviamo è il portato di un lungo periodo nel quale l'attività d'impresa è stata, con alterne fortune, sempre più regolamentata. Norme e codici prodotti dal Parlamento rispecchiano una cultura giuridica per la quale ogni immaginabile circostanza deve trovare un argine in una regola precisa.
Involontariamente, a questo atteggiamento danno spago le imprese stesse, che amano dare l'impressione di fornire beni e servizi sempre nuovi. Questo, vero o meno che sia, solletica gli aspiranti regolamentatori: servizio nuovo, nonne nuove. In realtà le sentenze che hanno bruscamente messo fine alle attività di Uber in Italia (versione X, quella per cui tutti possono diventare autisti a tempo) oppure che hanno indotto una riorganizzazione del mondo del food delivery (i cui lavoratori si mettono a disposizione dell'azienda quando desiderano) suggeriscono che le cose non stiano proprio così. Le regole che governano i rapporti fra aziende e lavoratori non escludono i nuovi mestieri. Possono essere anacronistiche, ma non sono state cancellate.
C'è, forse, al fondo una incomprensione circa che cosa ci si debba aspettare dalle norme e da chi le fa applicare. Ogni tanto abbiamo l'impressione che il mondo sia diviso in due: sfruttatori e filantropi, comportamenti evidentemente predatori e altri comportamenti altrettanto evidentemente commendevoli. È uno schema che non ci aiuta a comprendere la gamma delle diverse situazioni nelle quali lavoratori e imprese possono venirsi a trovare.
Gli uni e le altre tenderanno a fare quello che percepiscono come il proprio interesse e, se hanno l'impressione che ne valga la pena, lo difenderanno in tribunale. Non tutte le scelte che lavoratori e sindacati denunciano come illegittime lo sono e lo stesso vale per le attività intraprese dalle aziende.
La giustizia in Italia è lenta ma ovunque presuppone un confronto di ragioni, per interpretare una norma e le particolari circostanze in cui se ne chiede l'applicazione. Al contrario, nel nostro Paese continua a prevalere una visione per cui le buone leggi sarebbero dei divieti inaggirabili, che immediatamente e inevitabilmente producono gli effetti desiderati dal legislatore. Di qui la credenza diffusa che al demone del profitto debba essere messa, per legge, la museruola dell'interesse pubblico. E siccome è un demone sfuggente la produzione di museruole non deve fermarsi neanche un minuto.
Prendiamo il caso delle norme «anti-delocalizzazioni» al vaglio del governo: al fondo, l'idea è che sia possibile continuare a produrre in Italia a dispetto delle convenienze e che tutto sia lecito in nome della tutela dell'occupazione. È verosimile? Ha senso issare la bandiera del salario minimo, fingendo di dimenticare che in Italia esistono già i contratti collettivi nazionali e che le due cose dovrebbero essere alternative?
Il sospetto che sorge è che l'euforia legata agli stanziamenti del Pnrr abbia indotto alcune forze politiche, e quel che resta dei loro intellettuali «organici», a illudersi che in economia non conti altro che la volontà del sovrano. Il «rimbalzo» dell'economia italiana non autorizza toni trionfalistici, perché viene dopo la perdita di 8,9 punti di Pil lo scorso anno.
Quando il Covid-19 non sarà più un'emergenza, dovremo fare i conti con problemi di lungo periodo: per esempio il fatto che il Paese tende a non attrarre nuovi investimenti esteri. Vale per le aziende quel che vale per la cosiddetta «fuga dei cervelli». Se l'Italia fosse un luogo più interessante dove venire a produrre, ci interesserebbe poco che a un certo punto qualcuno decida di andare altrove. Invece l'urgenza di impedirglielo segnala la mancanza di fiducia nella nostra stessa capacità di consentire ad altri, italiani o stranieri, di provare a produrre ricchezza.
Nei prossimi anni tutti dovremo interrogarci su quale sia la crescita potenziale nel contesto demografico e di finanza pubblica nel quale ci troveremo. Le nazioni «vecchie» crescono meno ma ancor meno cresceranno se i vincoli all'attività d'impresa sono pervasivi e ottundenti. Una narrazione che racconta l'Italia come una sorta di Stato minimo ottocentesco, che deve attrezzarsi per resistere ai padroni del vapore, non è solo ridicola (come fa a essere «minimo» uno Stato che pesa per metà del Pil?): è dannosa.
Se c'è qualche forza politica che non si riconosce nel pregiudizio per cui lo Stato deve sempre, e comunque, fare di più, il suo lavoro dovrebbe consistere nel proporre una profonda revisione delle norme che ci governano. E' un compito difficile, alla luce dei continui fallimenti delle «semplificazioni». Ma bisogna prestare attenzione soprattutto a un racconto così divergente dalla realtà stessa. Lo Stato massimo c'è, è un fatto e non un'aspirazione e degli «statalisti» con un po' di onestà intellettuale si porrebbero il problema di come farlo funzionare meglio, prima di allargarne i confini.
dal Corriere della Sera, 26 settembre 2021