Francesco Specchia
Rassegna stampa
4 febbraio 2021
Capitalismo sotto attacco, ma lo Stato aiuta i perdenti
Debenedetti: «I contributi a pioggia proteggono gli zombie. L'ideologia ambientalista farà danni»
«L'unica responsabilità per l'impresa è quella di fare profitto», scriveva il profeta del liberismo Milton Friedman sul New York Magazine, anno 1970. A quel tempo, Franco Debenedetti era un ingegnere e manager in una media conglomerata, si apprestava a diventare amministratore delegato dell'Olivetti; ma quella frasetta l'aveva stampata in testa. Oggi, dopo una parentesi da senatore (tre legislature nel centrosinistra), da saggista e presidente dell'Istituto Bruno Leoni, mai avrebbe pensato di rievocare Friedman, rendendolo l'incipit del suo libro Fare profitti (Marsilio pp. 208, euro 18), che spazia dal digitale a Papa Francesco, per trasformarsi nel templare di un mercato oggi preso d'assaltato dal Covid.

Caro Debenedetti, nel suo libro lei ritiene che il capitalismo in pandemia sia sotto attacco, preda di populismi e statalismi. Ma chi l'attaccherebbe, scusi?
«Critiche al capitalismo erano rimaste dopo la crisi del keynesismo, negli anni in cui scriveva Friedman. Aveva fatto colpo la dichiarazione di 181 capi di grandi aziende alla Business Roundtable, ripresa dal Financial Times nel settembre 2019: bisogna "resettare" il capitalismo, assunta come obbiettivo dal World Economic Forum di Davos. A me era sembrato che quelle che eravamo abituati a considerare le Bibbie del capitalismo fossero diventate il Corano del socialismo, e che si trattasse di un modo un po' cinico di prevenire le critiche facendole proprie...».

Lei, iperliberista, parte da Friedman per dire che lo Stato - quando vanno di moda welfare e sostegno pubblico - sbaglia a finanziare a pioggia, che l'unica via di salvezza è produrre ricchezza. Che fa, provoca?
«I governi esistono per proteggere i cittadini da pericoli, invasioni esterne, criminalità interna, malattie e calamità naturali. Le aziende devono riprendere presto la loro funzione sociale, produrre ricchezza. Logico, quindi, che col Covid lo Stato ristori e finanzi imprese che non ripartirebbero. Ma distinguendo: c'erano aziende che anche prima della pandemia non producevano ma consumavano ricchezza. Se i soldi vengono dati a pioggia, senza distinguere tra le aziende che sono state messe in ginocchio dalla pandemia e quelle che già prima erano irrecuperabili, si tengono in vita le cosiddette società zombie».

Nel momento in cui il nostro debito pubblico è aumentato di 97 miliardi in 3 mesi, l'intervento statale nelle imprese rimane necessario?
«È la natura dei settori in cui operano le aziende, non la situazione delle finanze dello Stato che deve definire i limiti del suo intervento. Che si giustifica solo là dove c'è un vero monopolio naturale. Esempio, i binari e i sistemi di segnalazione dei treni: nessuno si sognerebbe di raddoppiarli. Lo Stato frena, non è un concorrente qualsiasi, può avere tutti i soldi che gli servono, fa le leggi. Ci sono circostanze in cui il mercato non è disposto a finanziare il rischio per risanare un'impresa, e lo Stato, per motivi sociali, prova a risanarla. Ma poi deve uscirne. Il più delle volte non lo fa».

Ora c'è la Cdp, la Cassa Depositi e prestiti che crea un "patrimonio destinato" per aiutare le imprese con oltre 50 milioni di fatturato. Lo Stato entra sempre più spesso nelle aziende. C'è il rischio che così possa dirigerne il destino?
«Col "patrimonio" corriamo il rischio che l'entrata dello Stato da evento eccezionale divenga destino inevitabile. Certo, ci sono aziende danneggiate dal Covid che non possono finanziare la ripresa solo con il debito bancario. Ma lo Stato, se entra nel capitale, dovrebbe farlo con strumenti che non ne condizionino le strategie. E invece periodicamente finanziamo una "resurrezione" di Alitalia. In Mps è in scadenza il termine entro cui lo Stato si era obbligato con l'Europa a dismettere. Lo Stato non solo ha finanziato Openfiber, ma è entrato in Tim, cosa di cui non c'era alcun bisogno. In Autostrade, si è imposto a Benetton di vendere a Cdp e di vagliare l'entrata di altri investitori...».

Nel libro lei se la prende anche con le corporation americane che decidono di investire innanzitutto sul green. Fa il bastian contrario?

«Il problema ambientale esiste, la riduzione delle emissioni è un compito gigantesco per Stati e per privati. Ma occorre farlo senza impedire al mercato di fare il suo mestiere, dare un prezzo alle cose. Guardiamo invece cosa è successo da noi con gli incentivi per le rinnovabili, in particolare il fotovoltaico: erano talmente allettanti che nacque un mercato secondario dei permessi: non ricordo per quanti anni dovremo pagarne il costo in bolletta. Bisogna cambiare i modi di produrre e di consumare. Per la auto elettriche ha fatto di più Elon Musk con Tesla che gli accordi di Parigi».

Lei viene dalla Olivetti. Non le sembra, con le sue idee di andare contro le idee keynesiane sull'etica e l'intervento pubblico; idee che erano anche quelle, illuminate, di Adriano Olivetti?
«Al contrario. Olivetti produceva le Divisumma, macchine scriventi uniche al mondo al primo costo di 20mila lire e le rivendeva a mezzo milione, il prezzo di una Fiat 500. Con quei soldi aprì sedi all'estero e uffici che fecero la storia dell'architettura, investì nelle biblioteche del Canavese dove gli rubavano i libri ma lui era contento "perché almeno la gente leggeva". Invece il progetto politico di Comunità, avrà avuto per scopo la responsabilità sociale, ma fu un errore grave per l'azienda. Poi c'erano le Edizioni di Comunità, con cui, uno sfizio, pubblicava in Italia Freud e i grandi sociologi tedeschi. Solo che perdeva 400 milioni e mio fratello Carlo, disse: l'anno prossimo o non ci sono le perdite o non ci sono più le Edizioni nel perimetro dell'azienda».

Recovery Fund. È più preoccupato se l'Europa accetterà il nostro piano, o di come - e se - quei soldi riusciremo a spenderli?
«Il Recovery Plan mi angoscia. La nostra amministrazione è del tutto incapace a fare con questi soldi investimenti produttivi, riforme strutturali. Basta vedere cosa abbiamo fatto dei fondi di coesione. Finirà che li spenderemo in gran parte in sussidi: e aumenteranno le spese correnti e noi consegneremo ai nostri figli un paese con maggiori spese fisse, e gli interessi da pagare. Il paradosso è che per anni abbiamo chiesto gli Eurobond e adesso, di fatto, li abbiamo».

Lei sostiene che se siamo messi male in fondo il Covid non c'entri?
«Be', ci sarà un motivo se - dice Carlo Bonomi di Confindustria - l'Italia da 25 anni cresce meno dei suoi partner europei. Ci sono problemi in tutti i settori. La scuola: possibile che i nostri studenti siano sempre in fondo alla classifica per i test Pisa? O la giustizia: quanti investimenti esteri perdiamo per l'incertezza e la lunghezza dei procedimenti? Perdiamo in produttività e diciamo che è per la piccola dimensione delle nostre imprese: eppure esse non sono, in proporzione, meno numerose di quelle tedesche: solo che quelle tedesche sono nettamente più produttive».

Cosa le fa pensare che il mercato, nella pandemia, sia alterato?
«Le quantità di danaro pompate dai governi e fornite dalle banche centrali hanno alterato i valori dei beni. Con effetti a volte paradossali, come quelli descritti dall'articolo del New York Times: il boom di mercati azionari in un anno di miseria umana. Negli Usa, con tutti questi ristori, i guadagni personali, stipendi compresi, sono aumentati di 48 miliardi; ma col lockdown la gente ha speso di meno (545 miliardi): quindi la liquidità è aumentata, ed è stata investita in fondi azionari. I fondi hanno comprato azioni, determinando la crescita del loro valore: col risultato che i ricchi, che le possedevano, sono diventati ancora più ricchi».

Da Libero, 4 febbraio 2021