La fake news dei braccialetti di Amazon e il pregiudizio contro l'innovazione

In Italia, la prima reazione a qualsiasi cambiamento sta diventando un “no” preventivo e obbligatorio

6 Febbraio 2018

IBL

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Teoria e scienze sociali

La polemica sui “braccialetti di Amazon” è perfetta per spiegare che cos’è una “fake news”, specie in campagna elettorale.

Partiamo dai fatti: l’azienda americana ha brevettato un braccialetto pensato per agevolare i lavoratori dei propri centri di logistica a rintracciare i prodotti sugli scaffali. Il braccialetto può potenzialmente essere utilizzato anche per controllare i dipendenti. Al momento, però, non si tratta di un prodotto in uso né nulla lascia pensare che presto le cose possano cambiare. Fin qui le notizie. Che non hanno impedito che si sollevasse un gigantesco polverone.

Uno strumento simile era stato proposto ai lavoratori da una impresa padovana, la quale avrebbe voluto dotare i dipendenti di uno “smartwatch” per “monitorare la corretta applicazione delle misure di salute e sicurezza sul lavoro, migliorare l’efficienza del processo produttivo e supportare i dipendenti nello svolgimento di specifiche attività lavorative”. In questo caso, la politica non si è dovuta scomodare per prevenirne l’utilizzo: è bastata l’opposizione dei sindacati.

Queste due vicende ci offrono due spunti di riflessione. Il primo riguarda una campagna elettorale che conferma una tendenza di fondo della politica italiana: la netta separazione fra retorica politica e realtà. Nel nostro Paese già esistono leggi e procedure che disciplinano, tra l’altro, la protezione dei dati personali e le tutele dei lavoratori, assegnando un ruolo centrale alla negoziazione tra azienda e rappresentanza sindacale.

Non c’è bisogno di fare la voce grossa: se mai Amazon volesse introdurre il braccialetto nei suoi magazzini in Italia, dovrà rispettare le norme e convincere i sindacati dell’opportunità della cosa. Questo può piacere o no, ma è un dato di fatto su cui si è completamente sorvolato in questi giorni.

Il secondo ha a che fare con un atteggiamento sempre più diffuso verso l’innovazione tecnologica. A furia di parlare di disoccupazione tecnologica (in un Paese nel quale da anni gli incrementi di produttività lasciano a desiderare), la prima reazione a qualsiasi cambiamento sta diventando un “no” preventivo e obbligatorio. Anche quando l’innovazione può unire il miglioramento della produttività con quello delle condizioni lavorative dei dipendenti. Cosa che, in realtà, accade spesso: non c’è modo migliore di rendere il lavoratore più produttivo, che rendere più semplici e sicure le sue mansioni.

La nostra impressione è che la rivolta contro il braccialetto prescinda da una valutazione di merito sui suoi pro e contro, per la quale del resto oggi nessuno ha elementi. In gioco sono invece entrati pregiudizi antichi.

L’idea che le condizioni di tutti possano migliorare senza cambiamenti nel modo in cui si producono beni e servizi (e non solo nella tipologia di beni e servizi prodotti) è tanto ingenua quanto pericolosa. Spiega molte resistenze del nostro paese e forse anche perché fatichiamo a uscire dal sentiero di declino nel quale ci siamo cacciati. Senza innovazione non c’è crescita, investimenti e occupazione: ma non può esserci innovazione un paese che pretende di regolamentare puntigliosamente ciò che le imprese devono fare. Spesso ben prima che metodo, tecniche e strumenti oggetto della regolamentazione siano diventanti qualcosa di più concreto, che una discussione fra politici e opinionisti.

6 febbraio 2018

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