L'inganno di One Health

Davanti alla pandemia, guai a criticare l'Oms. Sareste tacciati di essere "nemici della salute"

19 Agosto 2020

Il Foglio

Argomenti / Teoria e scienze sociali

A dispetto della narrazione per cui essa parlerebbe sempre con una voce sola, la scienza non ama il monopolio, è plurale e si nutre di disaccordi. Purtroppo i disaccordi possono diventare divisivi, soprattutto se la scienza diventa una formula di legittimazione al servizio della politica. Dopo l’energia nucleare, l’Aids, gli ogm, il riscaldamento globale e le cellule staminali, sta emergendo una nuova questione scientifica potenzialmente foriera di conflitto politico, attorno all’ipotesi che la conservazione della biodiversità ci protegge dalle zoonosi, ovvero che le azioni umane che danneggiano gli ecosistemi selvatici aumentano il rischio di infezioni emergenti, tipo Covid-19. Ne viene tratta la deduzione che gli interventi sanitari per contenere questi rischi dovrebbero mirare anche a proteggere la biodiversità.

L’ipotesi è parte integrante di un ambizioso paradigma ecologico della salute, che prendeva forma all’indomani dell’emergenza di Sars nel 2004, e che è stato adottato da organizzazioni mondiali come Oms e Fao sotto il nome di “One Health”. “One”, per l’appunto: ogni problema sanitario è un problema che include, oltre alle persone, gli animali e gli ecosistemi e pertanto qualunque intervento, medico o veterinario o conservativo/intrusivo per l’ambiente, ha implicazioni sanitarie, sia locali sia globali. Per questo, tali interventi devono essere ispirati a “un” obiettivo comune e, presumibilmente, coordinati da “una” stessa cabina di regia.

La nostra salute dipenderebbe dunque dalla salute degli ecosistemi e da quella degli animali domestici o selvatici, a prescindere da cosa significhi essere in salute per una foresta pluviale, per una popolazione di pipistrelli, per un allevamento di polli o per il gatto di casa. Naturalmente, in una prospettiva antropocentrica spacciata per il contrario, significa in realtà che si devono controllare alcuni parametri funzionali in modo da ridurre o eliminare il rischio che ci ammaliamo noi uomini.

“Il” parametro su cui si centra l’attenzione è la biodiversità. Chiariamo subito che a noi la biodiversità piace, come ci piacciono molte cose che il benessere guadagnato dal progresso moderno consente a tutti, oggi, di apprezzare. La possiamo infatti guardare in televisione, la biodiversità, e se siamo occidentali benestanti possiamo fare una vacanza presso uno qualsiasi dei santuari ecologici distribuiti sul pianeta. Se fossimo vissuti nell’Alto Medioevo, o anche soltanto nell’Africa del secolo scorso, avremmo trovato decisamente minacciosa la stessa biodiversità.

Il problema non è, in questo caso, cosa vogliamo fare della biodiversità in quanto tale, ma se è vero che ci protegge dalle malattie. Si tratta di una ipotesi specifica e scientifica, in qualche modo, che prima di essere trascinata nell’agone politico andrebbe discussa razionalmente.

Un articolo pubblicato qualche settimana fa su Nature, e largamente ripreso e commentato, rilancia la tesi che gli interventi di disturbo di habitat naturali causerebbero cambiamenti prevedibili nella diversità e tassonomia delle specie locali, ovvero nella composizione delle specie che sono serbatoi di parassiti e in quelle che farebbero da tampone in funzione del rischio che i parassiti e patogeni possano tracimare e raggiungere la specie umana. Gli autori trovano che le specie che condividono patogeni e parassiti con l’uomo sono più numerose negli ecosistemi sfruttati dall’uomo (ecosistemi secondari, agricoli e urbani) rispetto ad habitat prossimi indisturbati. Non si tratta di una novità e la tesi risulta intuitivamente plausibile. Ma non se ne può ricavare alcuna legge o paradigma che dir si voglia, da scagliare eventualmente come ennesimo slogan retorico a supporto di un approccio politico che colpevolizza il progresso economico e sociale che, va da sé, coincide con la progressiva “occupazione” di ecosistemi da parte dell’uomo.

La questione del rapporto tra biodiversità e rischio di malattie zoonotiche è stata ampiamente studiata e si è visto che non esiste una legge univoca, bensì occorre esaminare ogni situazione ecologica per stabilire in che modo la ricchezza di specie presenti funziona da tampone o da acceleratore nella diffusione di parassiti patogeni all’uomo. Un famoso studio pubblicato nel 2008, che ricostruiva tutte le infezioni emergenti dal 1940 al 2004, registrava che storicamente il fattore più significativo associato al rischio dell’emergenza era proprio la ricchezza di specie.

Un altro dato non rassicurante a proposito della biodiversità è che il numero di parassiti e malattie parassitarie è tanto maggiore quanto maggiore è la biodiversità, ovvero via via che ci si sposta dalle regioni temperate verso quelle tropicali. Ma anche questo non vuol dire sia necessariamente e sempre un fattore di rischio. Ora la questione se e quando la biodiversità funzioni o meno da buffer rispetto alle malattie, è di natura scientifica, e si sa che le risposte sono incerte ovvero variano a seconda dell’ecosistema in gioco, ma soprattutto delle specie e dei cicli di trasmissione del parassita o patogeno che costituisce un rischio.

Proprio l’incertezza consentirà probabilmente di usare il tema come un grimaldello per fare propaganda politica e intercettare dei sentimenti molto vaghi ma intuitivamente o emotivamente soddisfacenti. Anche se la razionalità suggerirebbe di seguire altre strade? Le altre strade sono, come quelle della buona ricerca, tante e non necessariamente puntano in una direzione chiara. Invece averne “una” risponde a una domanda di certezza fortissima, soprattutto adesso che il Covid-19 ha messo il rischio pandemico in cima all’agenda dei governi e alle preoccupazioni degli elettori. Nulla di meglio che una visione olistica, per evitare che la percezione del rischio ambientale e climatico scivoli in fondo alla lista delle priorità.

Scommettiamo che anche la nascente commissione dell’Oms posta sotto la guida di Mario Monti si eserciterà soprattutto in raccomandazioni generali e generiche prevedibilmente inutili per affrontare le minacce sanitarie locali e al contempo sostenibili solo al prezzo di indebolire il tasso di crescita dei paesi colpiti. Ma cosa ha prodotto di valido finora One Health?

Un articolo pubblicato nel 2017 esaminava 1.839 pubblicazioni sui benefici dell’approccio, trovando che solo 7 (sette!) fornivano una qualche metrica di valutazione degli interventi e il resto erano chiacchiere, per carità molto edificanti, ma chiacchiere: tipo che One Health è un approccio moralmente e sanitariamente migliore e non serve dimostrarlo, che sarebbe bello fare questo o quest’altro in questo o quest’altro paese, che solo una visione olistica della salute potrà migliorare la condizione umana, etc.

Come tutte le visioni olistiche, anche One Health ha un respiro totalitario. L’idea che la salute dipenda da complesse reti di interazioni per cui vanno regolamentati tutti gli snodi di attività umane, produttive o meno, che portano a interagire con animali domestici o selvatici o con ecosistemi è lo script ideale per cancellare le libertà individuali nel nome di una insana pseudoscienza. Già forse Salute andrebbe scritto maiuscolo, come si merita un ideale e non invece una questione di dettaglio, una specifica disfunzione o malattia per cui sarebbe forse più facile trovare un accordo su dei fatti.

Abbiamo visto con Covid-19 che l’indole paternalista dei medici non si è spenta dai tempi di Ippocrate e Platone, per cui se solo ne hanno l’opportunità ti fanno chiudere in casa (evitando analisi costi-benefici prima, durante e dopo), quando non arrivano a prescrivere la giornata-ideale del buon fanciullo, con malcelato senso di realizzazione. Come in tutte le visioni totalitarie che si rispettino, One Health spaccia per scienza un po’ di pregiudizi, buoni sentimenti e tanta retorica, additando come nemici dell’ambiente e della salute le voci critiche. Naturalmente per realizzarsi il piano non prevede alcun capitale di rischio, ma montagne di denaro pubblico con la garanzia che non si dovrà mai rispondere se l’uso fattone abbia portato a qualche miglioramento della salute del pianeta. Il ritorno sull’investimento politico è sicuro. Nulla ci conforta come avere finalmente “una” risposta a tutti i problemi che ci assillano.

da Il Foglio, 19 agosto 2020

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